di Lucia Schiavone
Pino Roveredo è una gran brava persona e nella vita fa lo Scrittore: la pagina scritta è per lui vitale, pregna di segni che chiariscono la sua travagliata ansia di gioia e strumento di vicinanza profonda all’Umanità.
Roveredo scrive per sé, certo, ma senza mai essere egoista, perché il suo orizzonte sono i cuori di chi lo legge, le persone cui dà voce: sono gli sfortunati dell’esistere per scelta o per disgrazia, gli ultimi primi nei suoi pensieri di scrittore e di operatore di strada, di cui sa cantare la dignità, il valore, il calore, l’estro, l’impertinente e stringente saggezza.
In Mio padre votava Berlinguer, settembre ’12, Bompiani, scrive per il suo papà: nella sua vita tanta fatica, tanti stenti, la menomazione di essere sordomuto, lavori poco remunerativi e non sempre scelti, tanti sogni infranti, l’ambizione di avere un figlio “Campione” di qualcosa, la grande delusione dei lunghi decenni di devianza di Pino. Una vita che sembra essere stata riprodotta da Pino Roveredo nei suoi primi quarant’anni: tentativi drammaticamente disastrosi di riuscire nella famiglia, nella società, nel mondo dell’arte, raccontati da sempre con un’onestà autentica e commovente, tra alcolismo e precarietà, detenzioni e persino ricoveri psichiatrici. Ma molte altre prove di Roveredo figlio, quelle che restano, contrariamente a quelle del padre, hanno avuto esito felicissimo, tra unità familiare ed amore incondizionato per i Figli, lotta ai disagi, grande Letteratura (apprezzata da pubblico e critica), equilibrio, serenità, riscatto. Un bilancio molto positivo perciò quello dell’ultimo Romanzo, accolto dai suoi affezionatissimi lettori come un prezioso invito, l’ennesimo, a risalire chine, nella società, nella politica, nelle famiglie, nella vita personale. Ci parla delle sue disgrazie Pino Roveredo, come ha fatto in tutta la sua Opera, senza ripetersi però mai. Ci sono delle immagini delle sue “Capriole” e delle sue rinascite che abbiamo già letto e che non immaginiamo di poter descrivere con altre parole, ma che ritornano sempre vive e sempre diverse e rendono forti le ragioni della fiducia nell’Uomo. Quest’ ultimo Romanzo è anche autoanalisi che fa i conti con l’innominato finora innominabile: il traumatico rapporto col Padre (e l’adorata madre) di freudiana memoria, il padre già alter ego di Pino in “Schizzi di vino in brodo”, figura in altre opere in ombra, come tutte quelle maschili rispetto alle titaniche donne – madri roverediane. Qui il padre domina invece la scena, incombe, ingombra, col doloroso non detto tra i due, naturalmente non legato alla sua menomazione di sordomuto (ché anzi l’esperienza del linguaggio dei segni imparato da bambino ha affinato in Roveredo la capacità di ascoltare e comprendere oltre le parole, guardare negli occhi, leggere nel cuore e di ciò si dice sempre grato ai genitori). Il non detto nasce dall’incompatibilità di carattere, dall’educazione austera, dalla rabbia del padre alcolizzato e fragile, dalla sua mancanza di costanza e coraggio nell’affrontare la difficile vita del calzolaio, dell’operaio, del marito, del padre di tre figli, del comunista. E poi dal silenzio del figlio Pino, dalla sua ribellione nell’assistere alla decadenza del padre, dal rimorso, dal suo rammarico di non avere incoraggiato per tempo col proprio riscatto la risalita del padre. Ma nel Romanzo c’è anche la grande soddisfazione di poter dire oggi al padre che quel Campione che Lui sognava fosse, nel quale non ha creduto abbastanza, si è potuto recare nel paese paterno ed ivi è stato salutato come una “persona importante”. Altro naturalmente è essere una “brava persona”, quello che il padre predicava essere fondamentale, risultando spesso poco autorevole a causa delle sue debolezze. Pino Roveredo ha perdonato, ha compreso, si è riconciliato col suo passato e crede che il suo ruolo come padre può e dev’essere diverso: pur con la retta coscienza di non essere mai abbastanza capace di volare, vuole aprire le ali, fare da battistrada, lanciare al volo, e poi rispettosamente guardare da lontano, i figli librarsi nella vita. La riflessione sul tempo è la chiave della vita dell’uomo (S. Weil): Pino Roveredo riflette sul suo tempo, si prende due vite, quella sua e quella del padre, e tutto un romanzo per farlo, aprendo nuove prospettive alla vita “matura” sua e nostra. L’uomo Roveredo trova nel ruolo di Padre la sua vocazione, nell’ esempio di coraggio della sua vita il dovere dei Genitori nei confronti dei Figli: senza rimpianti eccessivi, senza pudori se serve, senza tema di assumere toni predicatori, comunicare ai Giovani speranza. Di futuro, di cambiamento. E poi entusiasmo, calore umano, ragioni di allegria e magari anche additare loro qualche “brava persona” di riferimento: Berlinguer, Pertini, Falcone, Borsellino, Pasolini, Gaber, De André, Vecchioni, Gesù nazareno… Ce lo chiedono i Giovani stessi nelle occasioni degli incontri importanti, quelli che creano comunione, che comunicano Amore: di donare loro tutti noi stessi, consci che solo allora potremo definirci davvero delle brave persone. Anche tra Roveredo ed il padre è stato Amore, disperato, figlio di fragilità emotive, fatto di rabbia, orgoglio, incomprensioni, ma un dono grande in sé, ritrovato e per sempre patrimonio di Roveredo adulto, radice della sua sensibilità. Ma si può amare meglio, molto meglio. Lo sta facendo ed è risolutamente determinato a farlo Pino Roveredo Scrittore, una brava persona innamorata persa degli adorati figli e nipoti e di quanti abbraccia andando grato incontro al suo destino.