di Salvatore Romeo (’85)
Le notizie brutte arrivano così, senza un perché. Non ti avvisano. Senti dei brividi alla schiena, ti giri e le trovi li, pronte a sorprenderti colme di inquietante sorpresa e tristi sguardi. Quello passato era già un mercoledì particolare. Poche ore prima la notizia dell’ennesimo ricatto da parte dei Riva: 5000 badge disattivati, 5000 lavoratori a casa. Senza un preavviso, come le brutte notizie. Poi un sms, mio padre. Un testo chiaro e conciso, inaspettato da chi con la tecnologia ha stracciato tutti i patti di non belligeranza: “A Taranto c’è l’inferno”. Penso ai numerosi arresti ed intercettazioni resi noti il giorno precedente, ma mi dissuado immediatamente dall’idea che i miei concittadini si siano ribellati in una sorta di rivoluzione collettiva. Chiedo in prestito il cellulare ad un mio vicino di posto. Guardo il video del tornado. Scene apocalittiche. La “spirale distruttiva” cattura le attenzioni (oltre che della stampa nazionale) dei colleghi assopiti nella pausa tra una lezione e l’altra. Mi chiedono dove sia quel posto. La risposta li lascia perplessi e sbigottiti. Uno di loro, con il sorriso sulle labbra, mi parla di “punizione divina”: da lì a poche ore avrei capito che non era l’unico a pensarla così. L’interesse verso le sorti della mia città mi spinge a fare una domanda al capannello che intanto si era già creato: “cosa ne pensate di Taranto?”. La domanda li terrorizza un po’ dato l’argomento in questione. Sono consci che potrei essere molto duro con ogni loro frase superficiale. Li tranquillizzo. Non li attaccherò, anche se spesso la verità provoca dolore e rancori.
Incomincia S. che ci definisce “cretini”. Gli chiedo di spiegarmi il perché. Mi dice che non è possibile che i tarantini vogliano rinunciare al loro presente, al loro futuro. La vede così: la chiusura della fabbrica provocherà un rapido impoverimento della maggior parte degli abitanti; non solo i lavoratori dell’acciaieria e quelli, più “in ombra”, dell’indotto. Botteghe, artigiani, bar, tabacchini, pizzerie, concessionari, cinema. Se la più ampia fascia della popolazione si impoverisce, si impoverisce la città. Non fa una piega. Gli chiedo come sia così certo di quello che mi sta esponendo. “Nella mia città” – e qui il suo volto si fa più crucciato – “c’era il principale distretto di mobili e divani di tutta Italia. Poi nel giro di pochi anni tutto è cambiato: le aziende hanno chiuso e la gente si è ritrovata improvvisamente più povera e sola”. Gli ricordo che la sua città è così bella da essere patrimonio dell’Unesco, dunque non avrà problemi a “vivere di turismo”. Con il turismo, mi risponde, ci “campano” in pochi e molti di coloro che hanno aperto alberghi qui vengono da fuori: per il territorio fanno poco e niente.
All’improvviso interviene M. che alza la mano come se fosse a scuola ed incomincia: “La mia città è molto simile alla tua” – mi conferma – “abbiamo anche noi un porto ed una raffineria che danno lavoro a migliaia di persone. Per il momento l’aspetto ambientale non ha grande presa sulle persone, ma mi terrorizza l’idea che possa uscire fuori uno scandalo simile a quello di Taranto. Sarebbe terribile. Provo un gran dispiacere verso quelle madri e donne che devono convivere con la voglia di una maternità felice e la paura di avere delle complicanze dovute all’inquinamento. Ma non saprei neanche come possano vivere senza la sicurezza di un posto di lavoro”. “La vostra situazione è complessa” mi sorride dolcemente.
Osservo A. . E’ stato in silenzio tutto il tempo, ma noto in lui la propulsione a “dire la sua”. Lui nato e cresciuto in una cittadina avulsa da problemi di inquinamento e occupazione, con molta attenzione ascolta quotidianamente le centinaia di discorsi che gli faccio su Taranto. Gli chiedo di esprimere i suoi pensieri. La risposta mi sorprendere per poesia e delicatezza: “Taranto è come una fotografia in bianco e nero” – al primo affondo sono già spiazzato – “la sensazione che per me, che non ci sono mai andato, emerge dagli innumerevoli servizi di telegiornali ed affini è di una città grigia, coperta da una fitta coltre fina e scura di un fumo non precisato. E così immagino i cittadini: grigi, schiacciati costantemente dalla nube, come se fosse un “peccato originario” da dover espiare”. La sua rappresentazione della città mi lascia turbato per la precisione e le sensazioni che ne emergono. “È come” – continua – “se fosse in attesa di qualcuno che le restituisca i colori, di un bravo fotografo che sappia trovare l’inquadratura giusta per risaltarne i vividi colori”.
Rimango assorto nei miei ragionamenti, stupito da tali parole. Mi sento toccare alla schiena, S. mi ricorda che il professore è già in aula e che la lezione sta per incominciare. Il tema trattato è ciò di quanto più paradossale il caso abbia potuto architettare: normativa “ISO 14001, gestione e sostenibilità ambientale”. Il docente, dal bagaglio delle sue idee di “uomo di destra”, ci ricorda che la chiusura dell’impianto di Taranto è una tragedia per tutto il sistema economici italiano. La maggior parte della platea annuisce. Mi sorprende quando asserisce, senza mai nominarli, che l’atteggiamento della famiglia Riva è stato deplorevole, dannoso per la città e per i cittadini. Poi si ricompone e ricomincia la lezione. E nella mia testa si balena il pensiero che forse non è ancora tutto perso.