Questa è una di quelle storie che sembrano fittizie e che fanno ridere perché non sembrano vere. Chiunque si avventuri in questa lettura, probabilmente resterà dell’ opinione che quanto scritto sia frutto del mio amore verso l’iperbole e la spettacolarizzazione con cui vesto i miei racconti. In ogni caso vi lascio il beneficio del dubbio, perché in fondo viviamo tutti i giorni in inganni di diverso tipo: dagli editoriali di Sallusti per passare all’orologio che mettiamo di proposito dieci minuti in avanti con l’intento di arrivare puntuali agli appuntamenti.
Di tutte le mie storie, alcune sono state burrascose, strane, insipide o confuse. Molte di queste storie sono finite in maniera pacifica, complice il fatto di aver quasi sempre scelto persone adulte e mature.
Di alcune mie ex ho preso in braccio i loro figli con estremo piacere, condividendo con affetto la loro gioia in maniera sincera. Di altre invece ricevo notizie inquietanti: arrestate per cannibalismo, traffico internazionale di organi, oscuri contrabbandi di cozze.
Ma di una persona in particolare voglio parlarvi: una che ha segnato a lungo la mia psiche più di ogni altra cosa al mondo, ancor di più della semifinale del Festival di Sanremo e l’olezzo disgustoso delle flatulenze del mio compagno di banco alle superiori, arcinoto in tutto l’istituto per essere uno scureggione ripugnante.
La storia di cui vi parlo è stata delirante e melodrammatica per tutti gli interminabili e infiniti otto mesi devastanti che è durata. Leggendo quanto vi sto per raccontare vi chiederete il perché sono rimasto così a lungo con lei, in tal caso risparmiate fiato: non lo so nemmeno io.
Probabilmente allora ero nelle condizioni mentali di quegli assassini che sezionano cadaveri per poi dire che è una voce interiore a suggerirgli di uccidere. Ebbene, una vocina ignota mi suggeriva di non scappare, perché magari dopo mi sarei sentito un incapace nella constatazione di non essere riuscito a domare una psicopatica.
ono passati nove anni dalla fine di quella storia. Di lei sento ancora il fiato sul collo, perciò per esorcizzare il suo nefasto influsso che inesorabile riesce ad incombere su ogni essere vivente che lei incontri -e in particolar modo me- la chiamerò Medusa, come la creatura mostruosa con il capo coperto di serpenti mortali appartenente alla mitologia greca.
Medusa era affetta da varie paranoie e nevrosi: per quasi tutto il tempo che siamo stati assieme, mi ha accusato continuamente di tradirla, pur non essendo vero. Esattamente come John Nash nel film “a beautiful mind” collegava delle cose, fatti, avvenimenti apparentemente scollegati fra loro per poi stendere su un tavolo fittizio un oscuro disegno che aveva il solo compito di dimostrare scientificamente che ero un fottuto fedifrago.
Medusa raccoglieva le “prove” della mia infedeltà, in silenzio e con meticolosa cura, per ricavarne una mostruosa e inattaccabile massa granitica di materiale probatorio che non mi lasciava nessuna via di scampo per discolparmi dai miei immaginari misfatti.
Molte volte, a fronte di quei capolavori d’accusa infondata, per qualche secondo mi convincevo di essere veramente colpevole di infedeltà, ma poi successivamente ho realizzato che quei dubbi momentanei erano la spia di un esaurimento nervoso che lentamente mi stava conducendo ad un vicolo cieco infestato da ratti sieropositivi.
Un giorno incontrai Giuseppe, un suo ex ragazzo. Era all’uscita di un pub dove facevano la birra artigianale. D’ estate i ragazzi approfittano delle miti temperature per stare fuori a sorseggiare la birra.
In quel tempo suonavo in un gruppo, e quel locale era il ritrovo di tutti i componenti delle band locali della zona. Lui non sapeva chi io fossi, e approfittando del fatto che stesse chiacchierando con amici comuni, mi avvicinai a lui per attaccare bottone con una scusa patetica.
Lo riconobbi perché un giorno ad una festa Medusa me lo indicò tra la folla, e come da copione seguitò a (s)parlarmi di lui. Medusa adorava parlar male dei suoi ex. Lo descrisse come uno stronzo, che è esattamente la stessa opinione che ora ha di me e di tutti gli altri che come me hanno condiviso la stessa malevola sorte con quella donna infernale.
«Ciao Giuseppe» gli dissi con un sorriso.
Quello mi guardò come si guarda un marziano.
«Capisco il tuo stupore» continuai «ci conosciamo indirettamente, perché siamo uniti da un dolore passato che ci accomuna nostro malgrado»
Giuseppe cominciò a cambiare espressione. Assunse nello sguardo indispettito una sorta di sfida, perché cominciava a pensare che lo stessi perculando di fronte ai suoi amici e ad altri sconosciuti.
Perciò decisi di tagliare corto.
«Ecco, una settimana fa ho lasciato Medusa. So che anche tu sei stato…»
Non riuscii a finire la frase, nel frattempo sbarrò gli occhi mutando positivamente la sua espressione verso di me. Di fronte ora avevo una persona che mostrava la stessa empatia di un malato che offriva solidarietà a qualcuno colpito dall’identico male. Giuseppe sembrava aver ritrovato un amico d’infanzia e mi abbracciò calorosamente. L’abbraccio fu lungo e quasi imbarazzante e per un po’ ciondolammo come due innamorati.
«Anche tu con Medusa?» aggiunse «Vieni qua amico mio.. vieni qua! Devi essere molto provato. Ti offro una birra, vieni, entra…!»
E fu così che da quella sera io e Giuseppe diventammo amici.
Questa introduzione serve ad ambientare il lettore alla sciagura che rappresenta medusa verso l’umanità tutta e il resto dell’universo conosciuto, anche se un singolo episodio non può essere d’aiuto al lettore.
I testimoni oculari tutt’ora fanno fatica a confermare le stramberie di questo essere mitologico. Fu così che ad un certo punto, durante le vacanze di natale, io e medusa ci prendemmo una casetta vicino Lecce per passare qualche giorno da soli. La convivenza risultò subito difficile: a me piaceva stare un pochino di più a letto e godermi il sano tepore delle coperte riscaldate nottetempo, cosa che amo fare tutt’ora, nei periodi invernali.Lei invece sosteneva che quell’attività era tempo perso. La cosa poteva essere pure condivisibile, ma i suoi metodi da generale ostrogoto erano devastanti nel modo e nella forma. Quindi senza consultarmi o chiedermi pareri, s’ alzava alle sette, apriva le finestre facendo un casino della madonna, per poi avviarsi verso la cucina e prepararsi la colazione da sola e solo per lei. Nel fattempo io schiumavo rabbia sotto le coperte e pensavo che farla rotolare giù dalle scale non l’avrebbe uccisa del tutto. Inoltre il reato commesso mi avrebbe fatto guadagnare senza dubbio un posto in parlamento.Quindi, il primo giorno -nonostante le difficoltà dovute all’accordo sulla sveglia mattutina- Medusa era positiva. Si sentiva in vena di progetti che dovevano *assolutamente* coinvolgere entrambi.
«Oggi cucinerò io per te» mi disse mostrandomi il suo sorriso migliore.
Cominciai a sudare freddo e ad avere qualche allucinazione. Per un momento mi apparve Dodò dell’albero azzurro che sghignazzava sulla mia sorte con quella sua faccia di merda a pois e becco giallo. Era risaputo che anche i maiali rifiutavano qualsiasi cosa preparata da Medusa.
Suo fratello una volta mi raccontò quanto fossero vomitevoli i suoi tortellini con la panna, perché per un po’ di tempo Medusa non sapeva riconoscere la differenza tra panna da cucina e panna da dolci.
Purtroppo non potevo protestare sulla sua volontà ferrea di preparare il rancio, pena infinite invettive logoranti per lo spirito e corpo e astensione forzata dal poco sesso che facevamo.
Ah, non vi ho parlato del sesso? In diversi impeti di autoreferenzialità, Medusa si definiva una macchina da guerra dell’amplesso. Purtroppo per me però, le sue prestazioni erano pari a quelle di uno stendibiancheria del primo dopoguerra. Nonostante tutto non mi sento di colpevolizzarla per questo, magari non gli piacevo abbastanza. Ricordo ancora le sue richieste strambe:
«Nasconditi dietro quel muro, devi spiarmi mentre mi masturbo. Ma non osare farti vedere»
e mi risparmio il resto perché magari ci sono dei ragazzini a leggere, che comunque di masturbazione dovrebbero già saperne abbastanza, perché si sa che i ragazzini di oggi come quelli di allora hanno sempre problemi alla vista.
Dicevamo, lei doveva cucinare per me e la cosa mi terrorizzava perché come già detto lei stava ai fornelli quanto mia nonna alla cloche di un razzo spaziale. Mentre pensavo di ferirmi volontariamente con una scimitarra arrugginita usata come suppellettile in quell’appartamento, con l’idea di farmi trasportare in ospedale e approfittare della mensa del nosocomio, Medusa pronunciò le fatidiche parole che annunciavano il suo capolavoro culinario: farfalloni panna e salmone.
Per un momento sentii in bocca la disgustosa associazione di sapori che avevano causato quelle parole, e pensai che in qualche modo un arresto cardiaco poteva essere meglio e non così terribile come quel piatto di merda. Ecco, comunque a questo punto conviene che parli delle poche cose che in cucina proprio non riesco a mandare giù attraverso l’esofago:
1) Il famigerato salmone, che mi procura autocombustione, vertigini e gravidanza isterica dopo che a capodanno dell’89 me ne servirono sei portate che mi fecero vomitare l’anima;
2) I farfalloni, un particolare tipo di pasta che mi causa labirintite, scarlattina e gomito della lavandaia;
3) Il mix letale di panna, salmone e farfalloni, che univano insieme i miei più grandi spauracchi culinari di sempre, assieme all’insalatona mista di blatte con unghie dei piedi di un gommista.
Eravamo al supermercato per la spesa del pranzo e cercavo in tutti i modi di trovare le parole giuste per dirgli che se avessi consumato quella cena avrei reso il tavolo da pranzo una bolgia nauseabonda di vomito, roba che poi potevamo girare per casa con un pedalò.
Trattenni il fiato. Respirai profondamente. Vado? mi butto.
«Sai amore… ecco, io pensavo che… per il pranzo…»
Medusa si fermò di botto fermando un attimo lo sguardo in avanti, per poi roteare minacciosamente la testa verso di me. Incrociò il suo sguardo minaccioso al mio. Aveva già in mano la sua bella confezione famiglia di salmone. In quel momento mi sembrava così grande che avrei giurato fosse sufficiente a nutrire una cerimonia nuziale con dei licantropi come invitati. Portava quella fottuta striscia di salmone in giro come fosse una medaglia olimpionica e io ardevo dal desiderio di dare fuoco a quei lembi di carne senza vita di quel maledettissimo pesce, arcinoto per la sua indole suicida.
«Cosa c’é che non va?» tuonò.
«Ecco, il salmone e i farfalloni non sono propriamente il mio piatto preferito. Possiamo sceglierne un altro di comune accordo?»
«I farfalloni panna e salmone sono il mio piatto preferito. Perché devi rovinare sempre tutto?»
«Ma no amore, vedi, il salmone… non voglio rovinare tutto, pensavo che magari si poteva mangiare un piatto che potesse piacere ad entrambi»
«I farfalloni panna e salmone sono buonissimi»
«Amore, non lo metto in dubbio. Tu sicuramente li fai benissimo, è un problema mio,infatti»
«Come al solito non riusciamo mai a fare una cosa insieme. Perché devi sempre polemizzare sulle mie scelte?»
«Amore, cerchiamo di ragionar…»
La frase che stavo per pronunciare fu interrotta dalla collisione della spesa che rovinava sulla mia faccia. Dico: tutta la spesa, ovvero: una confezione acuminata di salmone formato famiglia, l’involucro cartonato dei farfalloni che nel frattempo si apriva rovinosamente facendo volare le farfalle sul pavimento, panna, diversi panini e una bottiglia di latte da un litro. Subito dopo aver riaperto gli occhi dall’impatto quasi mortale, mi toccai il naso per vedere se colasse del sangue. Niente, ero a posto. Nel frattempo Medusa era sparita, dissolta nella sua fottuta nuvola da incubo dove spesso andava a rintanarsi. Quella stronza avrebbe potuto uccidermi e le avrei ficcato in gola tutto quel merdoso salmone se solo mi fosse parata davanti in quel momento.
Con un occhio semichiuso e il respiro affannoso mi guardai attorno nel supermercato come se fossi solo in una stanza buia con un assassino, e fu in quel mentre che vidi una vecchietta che aveva assistito a tutta la scena.
Aveva la lingua a penzoloni e il respiro affannoso, stringeva la mano sul petto in direzione del cuore, come se volesse fermare il battito frenetico. Molto probabilmente s’era figurata un’aggressione da rapina. La vegliarda s’era poi rifugiata nel bancofrigo assieme ai broccoli e i funghi trifolati per scampare alla sparatoria che credeva sarebbe esplosa da lì a poco tra me e Medusa.
Rassicurata la vecchina, non mi restò che incassare l’umiliazione di passare dalla cassa e pagare i prodotti danneggiati, assieme agli sguardi interrogativi degli altri clienti che mi guardavano come uno che s’era cagato addosso durante la messa di mezzanotte a pasqua.
Torno alla casa dove stavamo trascorrendo le vacanze, furibondo. L’idea era di prendere le mie cose e lasciarla lì da sola per il resto delle ferie ma non prima d’averla tagliata in due come fanno alcuni prestigiatori, per poi dare tutto in pasto a dei cani rognosi e idrofobi.
Suono il campanello. Aveva lei le chiavi e maledii il fatto di non averle prese io. Nessuna risposta. Sento Medusa dall’interno intonare a squarciagola I will survive di Gloria Gaynor, con annesse stonature dovute all’innaturale sforzo della voce. Era il suo modo di scappare alla situazione.
Continuai a suonare il campanello infruttuosamente: il freddo mi stava entrando nelle ossa come lame gelate e arrugginite e nemmeno l’incazzatura serviva a non farmi pensare alla temperatura pungente dei giorni umidi di Dicembre. Al mio quarto tentativo, dall’interno sento lo stereo accendersi a tutto volume, le casse scureggianti faticavano a reggere il volume imposto da Medusa. La cosa cominciava a divenire imbarazzante, perché i passanti nel frattempo erano astanti di questa scena pietosa di me -sbattuto fuori di casa- e un individuo sconosciuto all’interno che aveva deciso di criogenizzarmi all’esterno.
Passarono venticinque interminabili e drammatici minuti, mortali per lo spirito e il corpo che cominciava ad abbandonarmi. La musica assordante dello stereo era finita, forse dovuto alla combustione dello stereo. Per qualche irragionevole secondo, forse dovuto alla paradossalità della situazione, ho pensato che in un momento di lucida follia Medusa inforcasse una pistola per puntarsela in bocca, facendola finita una volta per tutte. La cosa stranamente non mi spaventava, mi seccava di più l’idea di spiegare a tutti perché s’era uccisa.
Invece la porta si aprì, il calore dall’interno mi carezzò il volto per un secondo.
Medusa aveva addosso un pantaloncino aderente sui suoi fianchi snelli e un top che metteva in risalto il suo seno generoso. I capelli erano sciolti sulle spalle.
Rimasi in silenzio sulla porta per qualche secondo, guardandola negli occhi con aria di sfida, nonostante i tremori del freddo mi facessero apparire come un fragile pulcino infreddolito.
Non mi aspettavo certo quell’apertura improvvisa, e quindi dovevo ancora trovare una cazzutissima frase con cui mandarla a fanculo per l’eternità ed oltre. Passarono secondi silenziosi, ma non riuscii a trovare le parole che che mi permettesse di andare via con dignità da lei e da quella fottutissima casa.
Ma prima che riuscissi a dire qualcosa, lei mi prese il braccio e mi trascinò dentro.Chiuse la porta alle mie spalle. Mi guardò, sorrise come quelle attrici provette prima della scena tipica di un bacio ambito e desiderato. Mi abbracciò.
«Andrea» mi fa con una dolcezza quasi infantile.
«Vieni qui, ti aspettavo. Ora togliti i vestiti, andiamo di sopra e facciamo l’amore fino a stasera»
Lanciai uno sguardo sul tavolo della cucina, e notai che era apparecchiato per una persona. Su di esso campeggiava un solitario piatto di farfalloni panna e salmone lasciato a metà.