di Giuseppino Pittalis
Non ho mai capito perché un foggiano non dice mai che va allo stadio a vedere la partita ma dice sempre che “va a vede’ o pallone!”. Questa cosa raccontatami più volte da un personaggio del posto mi ha fatto sempre sorridere e riflettere sul perché si usasse il termine “pallone”. Ed è su quel termine pallone che in una improbabile riflessione sui personaggi che hanno fatto parte della storia dell’italica passione che accomuna gli italiani che ti rendi conto che il pallone di oggi non è quello di ieri. Sono figlio di una generazione il cui unico divertimento era la “partita di pallone” che il più delle volte era giocata in una strada trafficata in cui all’improvviso ci si fermava tutti al grido di “macchinaaaaaaa” immobili come delle statuine per poi riprendere con la stessa velocità di prima ,o in campetti improbabili le cui dimensioni erano determinate da marciapiedi e muri di cinta. Appartengo a un momento storico in cui le regole erano codificate in tutta Italia e non necessitavano di essere pubblicate su regolamenti o comunicati ufficiali.
In ogni campetto di periferia, in ogni strada, in ogni oratorio si iniziava sempre allo stesso modo. I due capitani al centro, la conta veloce , la scelta dei calciatori in maniera alternata (tu con me , io con te), il più sfigato sempre in porta. Chi portava il pallone aveva diritto a giocare sempre. Non serviva l’arbitro per sancire che il fuorigioco non esisteva, che ogni tre calcio d’angolo avevi diritto ad un rigore e che il portiere su rinvio non poteva segnare. Poi in corso d’opera se qualcuno andava via e si rimaneva in numero dispari, si giocava a porta americana con un unico portiere (sempre il più sfigato) che aveva l’obbligo di rinviare di spalle per non favorire nessuno. Inutile dire che a quei tempi in funzione del “pallone” si iniziavano a fare le prime distinzioni di classe.
Avere il “supertele” voleva dire essere figlio di un proletario, uno di quelli che si poteva permettere solo cose economiche e quindi per forza di cose ti toccava il pallone dai rimbalzi improbabili e dalle traiettorie eteree.
Avere un “supersantos” ti identificava nel ceto medio. Il pallone era stabile, aveva rimbalzi regolari, le punizioni seguivano delle traiettorie logaritmiche e il colore arancione lo rendeva ideale per le partite in notturna.
Se poi eri il possessore di un “san siro”, l’alter ego del supersantos, solo un po’ più pesante e con esagoni neri allora eri sicuramente figlio di un borghese che poteva permettersi di spendere quelle lire in più che nel rapporto qualità-prezzo non erano comunque giustificati viste le identiche prestazioni di quello arancione.
Esistevano anche altri due palloni in verità, che forse in pochi ricorderanno e di cui anche io ho una memoria fumosa che erano lo “yashin” e il “dinamo” simili al san siro ma molto più pesanti il cui possesso inevitabilmente ti faceva classificare come un tipo alternativo o radical chic.
Ultimo pallone della lista era quello di cuoio e possederlo voleva dire solo due cose: o tuo padre si chiamava Silvio ed era di Milano oppure lo avevi rubato ad uno che aveva il padre di Milano e si chiamava Silvio.
Altra caratteristica di quella generazione era il tipo di scarpette calzate. Le più utilizzate erano di ginnastica, marca Tepa Sport o Mecap, aventi la stessa caratteristica: a fine partita i piedi puzzavano sempre allo stesso modo.
Era un “pallone “ povero, diverso dal calcio miliardario di oggi, anonimo e indifferente, affollato di comparse e belle statuine, tanto distante da quello di allora capace di regalarti emozioni a poco prezzo. Era un pallone in cui la domenica sera la moviola la faceva alla Domenica sportiva Carlo Sassi che analizzava le azioni e un tecnico muto che manovrava una specie di registratore a bobina che aveva un nome strano che era Heron ed un cognome normale che rispondeva a Vitaletti. Era la moviola che evidenziava le gesta di Domenico Citeroni, raccattapalle di Ascoli che rimise in campo un pallone finito in rete calciato da Beppe Savoldi e spedito poi fuori da un difensore prendendo per culo l’arbitro che non si accorse di nulla e diede il calcio d’angolo non convalidando quella rete, cosa che costo il titolo di capocannoniere al bomber felsineo quella stagione. Una moviola calma e pacata, non come quella di oggi dove si cerca per forza di cose di crocifiggere il malcapitato di turno.
Era il periodo in cui nel “pallone” non esistevano termini strani, era un pallone in cui per dirla alla Nicolò Carosio non esisteva il corner ma il calcio d’angolo, il penalty si chiamava rigore e non si facevano i cross ma i traversoni. E’ chiaro che quando poi segnavi non gridavi goal ma semplicemente rete anche se questa era immaginaria. Crescere in quel periodo voleva dire parlare di “pallone” solo il lunedì commentando gli inserti dei quotidiani. Non esisteva la pay tv e i calciatori li conoscevi solo per le figurine Panini.
Non si correva il rischio come è successo a me di immaginare che El Sciaraui (spero si scriva così) fosse straniero per poi scoprire facendo zapping in tv che è un ragazzo minuto di Savona.
I calciatori dell’epoca sono nei miei ricordi da adolescente poveri operai prestati all’Italia pedatoria, personaggi di uno spettacolo rituale che aveva inizio dopo il pranzo della domenica, unico orario in cui si giocavano tutte le partite (mica come adesso che tra anticipi e posticipi devi portare il conto con la segretaria). Personaggi non famosi che volente o nolente hanno lasciato una traccia oltre che nella mente, nel cuore di chi il “pallone” lo ha amato e sente che il calcio di oggi non gli appartiene.
Il primo su tutti è Pierluigi Pizzaballa, portiere dell’Atalanta Bergamasca calcio di Zingonia in provincia di Bergamo, squadra che attualmente milita in serie A. Non lo ricordo per le parate, ma per quella maledetta figurina che ancora oggi non mi permise di completare l’album dei calciatori. A distanza di anni a pensarci bene ancora mi fa incazzare ancora il fatto che scrissi a Modena alla Panini mandando 50 lire in francobolli per richiedere la figurina che non mi è mai arrivata.
In realtà ricordo bene invece un’altro portiere, Giancarlo Alessandrelli, l’eterno secondo, la riserva di Zoff, lo spettatore non pagante sulla panchina della Juve. Il giorno del suo esordio in campo sia lui che io non lo potremo mai scordare: ultima giornata di campionato 1978-79. Juve -Avellino. I Lupi hanno bisogno di un punto per la matematica salvezza ma a 30 minuti dalla fine sono sotto di tre gol. Entra in campo Alessandrelli perché il Trap si intenerisce e in 25 minuti raccoglie tre volte il pallone in fondo al sacco: due gol li fece Gil De Ponti e uno Peppe Massa. Quel pomeriggio si celebrò l’ingloriosa fine di un portiere anonimo e lo scoppio irrefrenabile di gioia di un tifoso adolescente che vedeva salva la sua squadra del cuore al primo campionato in serie A. Gianluca “Gil” De Ponti, lo zingaro del goal citato prima, invece ha un primato diverso. E’ il primo attaccante italiano che deluso dal calcio in patria, ha fatto l’emigrante, andando a Malta nella squadra dello Zurrieq a fare il bomber di razza in un campionato dove pure se tenevi la panza non era un problema.
Ma di bomber di razza e con la panza venuti dalla provincia c’è ne sono pochi e uno su tutti è il mitico Vituccio Chimenti da Bari che pancetta a parte tra Matera, Salerno e Palermo di palloni ne ha buttati parecchi dentro diventando sempre per il suo modo di fare semplice il beniamino delle piazze (in verità ne ha fatti pure 9 in serie A quando giocava a Pistoia). Un paio di anni fa, ho rincontrato proprio Vituccio a Matera durante una partita di calcio a 5. Era seduto di fianco a me, in splendida forma, con una panza oramai debordante e tutti coloro che entravano lo omaggiavano come se fosse il papa.
Oltre ai bomber di periferia però comunque anche i difensori hanno un ruolo vivo nei miei ricordi. In particolare uno dal nome stranissimo e poco comune, tale Comunardo Nicolai. Un vero mago del goal….. nella sua porta. Ne faceva di veramente belli e io ancora mi ricordo quello di testa realizzato nella sua porta nel tentativo di intercettare un cross durante un Avellino-Cagliari. Quasi più bello di quello fatto in un Cagliari – Juve in cui era in palio lo scudetto.
Menzione a parte i centrocampisti. Ne ricordo tre, fuori dagli schemi, capaci in quel periodo di esternare un sentimento e di prendere una posizione. Il primo indossava una maglia numero 8. Maurizio Montesi un passato nell’Avellino e nella Lazio, impegnato politicamente tanto da avere idee troppo anacronistiche e a volte in contrasto aperto con i suoi compagni di squadra. E’ soprannominato Lotta Continua, fa dichiarazioni molto acute e essendo militante attivo di gruppi di estrema sinistra, usa il suo ruolo pubblico per denunciare le storture della società. Fu rispedito a Roma dal patron Sibilia, quando definì “STRONZO” il tifoso (sul corriere dello sport dell’epoca in prima pagina) dicendo che lo stesso è pronto a lottare per la squadra del cuore però poi fa la pecora nei confronti del potere politico corrotto e prepotente. Di Paolo Sollier invece è rispuntato il ricordo improvviso quando guardando un calendario di Sinistra Alternativa vidi che veniva ricordato il 13 gennaio giorno in cui era nato come me. Centrocampista del Perugia dei miracoli, impegno politico nelle file di avanguardia operaia , famoso per quel gesto anticipato sul podio delle olimpiadi da Jesse Owens, con cui salutava i tifosi a fine gara. Se al pugno chiuso uniamo anche i capelli lunghi e la barba ribelle insieme ad un giornale operaio allora l’etichetta di calciatore comunista è bella che fatta. In realtà Paolo è arrivato al calcio dopo un passato in fabbrica a Mirafiori e nel primo periodo della sua carriera ha fatto tutti e due i lavori. Continua con il suo impegno nel sociale, partecipa attivamente al movimento no Tav , ha scritto un paio di libri (Calci, sputi e colpi di testa è veramente bello) e fa l’allenatore dell’Osvaldo Soriano FC che è la nazionale di calcio degli scrittori.
A conclusione di questa improbabile squadra di calciatori alternativi non poteva che mancare Ezio Vendrame un utopista puro. Centrocampista del Vicenza è un comunista nell’animo. Dopo la morte di Piero Ciampi cantautore livornese , suo amico, nasce la decisione di mollare tutto, di lasciar perdere il talento che ha nei piedi e di iniziare a coltivare l’anima. Ha scritto un libro molto duro sul mondo del calcio (Se mi mandi in tribuna godo) dove in un passaggio esilarante ricorda quando fece il campo partendo dall’area avversaria per andare a segnare nella sua porta facendo venire un po di paura a chi era in tribuna. Vive allenando i giovani del suo paese e continua a essere un personaggio scomodo. Del calcio moderno pensa che “Il calcio di oggi non esiste, è finto, è acrilico. Al mondo ci sono stati tre giocatori di calcio: Maradona, Zigoni e Meroni. In questo rigoroso ordine, non alfabetico. Il resto è noia» .Qualcuno lo ha paragonato per il suo genio e la sua sregolatezza a George Best colui il quale nel 1976, mentre si giocava Irlanda del Nord – Olanda al 5′ minuto prese palla, saltò un uomo, ne saltò un altro, non puntò la porta punta ma il centro del campo . Puntò Cruyff. Gli arrivò davanti, gli fece una finta di corpo e poi un tunnel, poi calciò via il pallone, si girò e gli disse “Tu sei il più forte di tutti ma solo perché io non ho tempo”.
Questo è il “pallone” che forse in un contesto attuale come quello odierno ha ancora motivo di poter essere definito tale. Ho vissuto di calcio, ho guadagnato correndo dietro una palla ma ho sempre considerato lo stesso uno sport i cui attori principali sono solo belle statuine, vuote e non persone concrete. Del resto di mosche bianche veramente ve ne sono poche. Uno su tutti, ultimamente ha dato una grande lezione di vita a tutto il sistema. Stefano Stendardo difensore dell’Atalanta non si è presentato il 12 dicembre alla convocazione della partita contro la Roma perchè quel giorno doveva sostenere l’esame per l’abilitazione di avvocato. Che dire: sarà anche un calciatore ma i piedi ha dimostrato di usarli solo per calciare e che la sua testa invece la usa per ragionare. Di tutto il calcio vissuto, come tutti, anch’ io porto un ricordo impresso nella memoria. La finale dei mondiali di Spagna dopo il gol di Tardelli. Della vittoria del mondiale non me ne frega niente, ma di quello striscione dell’Avellino Club Salerno inquadrato in diretta , posizionato sulle tribune del Bernabeu e portato fino a Madrid in autostop si. Ma questa cosa ve la racconterò più in la. Ps: Oggi la Bari (non ho capito perché usano l’articolo al femminile) ha perso in casa ed arbitrava un tarantino e questa cosa mi ha fatto piacere. Sebbene non si sia capito, anche io ho una squadra del cuore, e questa è l’Avellino. Un buon libro sul calcio oltre quelli citati è “Litania di un arbitro” di Thomas Brussig.
Questo è davvero un articolo bellissimo.
grazie
Articolo molto ben scritto e simpatico… mi ha fatto ricordare i bei tempi della fanciullezza… :-)
Quanta malinconia! Ho ricordato i tempi in cui le ginocchia si sbucciavano a fine maggio e guarivano a metà settembre…
nostalgico e agrodolce. Complimenti Giuseppino
Questo articolo semplice e fantastico, letto di primo mattino, trasformerà inevitabilmente la mia giornata di ozio in un lungo flash-back di nostalgia e sorriso.