di Serena Mancini
Ha avuto inizio in questi giorni il tour de “L’Eremita contemporaneo MADE IN ILVA” nuovo spettacolo teatrale diretto da Anna Dora Dorno interamente incentrato sul tema del lavoro nella grande acciaieria tarantina. Dopo questa prima tappa a Napoli sarà la volta della Sicilia e in seguito della Liguria. In attesa che ne venga stabilita una anche in Puglia abbiamo deciso di intervistare la giovane regista per conoscere meglio questa interessante iniziativa.
- Quando nasce la compagnia “Instabili vaganti”?
La compagnia è stata fondata nel 2004 da me e Nicola Pianzola e porta avanti una ricerca quotidiana sull’arte dell’attore e del performer e sulla sperimentazione dei linguaggi contemporanei attraverso collaborazioni artistiche con musicisti, videomakers e artisti visivi. Instabili e vaganti opera a livello internazionale nella creazione e produzione di spettacoli e performance, nella direzione di progetti, workshop e percorsi di alta formazione nelle arti performative. Dal 2012 al LIV Performing Arts Centre la compagnia dirige l’International Laboratory, un programma di alta formazione rivolto a performer provenienti da tutto il mondo.
- Avete scelto di trattare un tema particolarmente attuale e soprattutto una vicenda molto “sentita” nella città di Taranto. Il caso Ilva è scoppiato improvvisamente dopo “anni di silenzi e assensi” ed è solo da pochi mesi che viene affrontato a livello nazionale. Cosa avete voluto raccontare?
Lo spettacolo fa parte di un progetto più grande che si chiama “Running in the fabrik” in cui volevamo esprimere la condizione di oppressione generata dai ritmi frenetici della società contemporanea. Si trattava cioè di una critica al sistema capitalistico che si è poi esplicitata in una critica ad un sistema che io, essendo nata e cresciuta in provincia di Taranto, conoscevo da vicino: la produzione industriale dell’ILVA con tutto ciò che ad essa è connesso. La tematica che è esplosa in questo periodo a Taranto dovrebbe riguardare non solo la città ma tutta l’Italia e il mondo occidentale. Siamo schiavi di un sistema che sta collassando e che non produce più ricchezza come un tempo, quella ricchezza effimera che ha portato con se catastrofiche conseguenze, ma che esprime solo una condizione di degrado ambientale e dell’individuo. Quello che ci interessava esprimere era l’ambivalenza, il dramma, il dissidio umano che provano i lavoratori o i giovani costretti a fuggire dalla città. La continua tensione tra la volontà di evadere da quella “prigione” e la necessità di sopravvivere e quindi di lavorare in condizioni disumane, nella consapevolezza di causare danni a se stessi, ai propri cari e all’intero territorio. Scappare o resistere? Il nostro “operaio” parla con parole poetiche, vive tutta la fatica e la sofferenza sul proprio corpo, ormai spersonalizzato, e di notte vive una condizione da incubo… ma continua a sperare che qualcosa cambi. Questo è il primo spunto che ci ha portato a creare il nostro spettacolo.
- Trattandosi di un tema molto delicato immagino abbiate condotto delle ricerche approfondite prima di rappresentare “l’alienante sistema di produzione contemporaneo”. Quanto tempo avete impiegato per raccogliere materiale? Come avete svolto le vostre indagini?
Come già accennavo lo spettacolo fa parte di un progetto che ha avuto inizio nel 2008 e si è concretizzato nella sua forma attuale in agosto, nel 2012, quando ha debuttato a livello internazionale al Festival di Stoccolma. Il processo di lavoro è stato molto lungo ed ha incontrato diversi spunti. In prima analisi i racconti degli operai, in particolare giovani operai. I ragazzi della mia generazione che hanno provato a lavorare all’ILVA e che quasi tutti hanno poi deciso di emigrare nella speranza di trovare strade migliori. Ma anche scritti, video pubblicati sul web, testi di riferimento, come le poesie di Luigi di Ruscio il “poeta operaio”. Molte suggestioni sono state da noi trasposte in chiave poetica, azioni o in suggestioni musicali. Abbiamo poi deciso di presentare il lavoro in corso diverse volte per capire l’impatto che poteva produrre sul pubblico. Gli equilibri in un lavoro così fisico e con questo tema sono molto labili e quindi il confronto conil pubblico ciè servito a capirefino a chepunto potevamo spingerci.
- Quali impressioni avete avuto parlando con gli operai?
Le nostre non sono mai state delle interviste dirette ma dei dialoghi, delle discussioni, ci interessava carpire le emozioni che ruotano dietro alle dinamiche del lavoro in fabbrica e soprattutto del lavoro in condizioni estreme a contatto con gas, alte temperature, altezze vertiginose. Noi da sempre nel nostro percorso teatrale abbiamo lavorato a superare i limiti del corpo dell’attore, ci interessava capire cosa accade nell’essere umano che per lavoro è sottoposto a queste condizioni estreme, di “brutalizzazione”. Ovviamente indagare questi aspetti ti porta anche a prendere in considerazione una serie di conseguenze di questo processo: le morti sul lavoro, le malattie, le conseguenze sull’ambiente circostante, etc. Tutto quello cioè che condiziona l’essere umano e la sua vita e che provoca in lui determinati stati d’animo come la rassegnazione o l’alienazione.
- C’è qualche aneddoto significativo legato alla fase di realizzazione dello spettacolo che vi ha compiti particolarmente e che intendete raccontare?
Siamo stati colpiti molto da un diario di un operaio morto in fabbrica pubblicato sul web da sua moglie. Ci ha emozionato il suo scrivere poetico che ci ha portati ad associare questi due mondi quello “basso” e sporco del lavoroin fabbrica a quello“alto” e idealizzato della poesia. Questo binomio ha condizionato il nostro modo di lavorare. La drammaturgia dello spettacolo è una composizione originale di testi poetici e momenti più semplici, diretti e quotidiani. Ci sono stati tanti aneddoti raccontati dagli operai. Per esempio la notizia che in occasione della colata d’acciaio viene trasmesso l’inno alla gioia attraverso degli altoparlanti. A noi non importava capire se si trattasse di verità o leggenda metropolitana, questa suggestione rendeva il contrasto in modo molto forte e quindi l’inno alla gioia è stato rielaborato dal nostro musicistaAndrea Vanzoedè entrato nella partitura musicale dello spettacolo.
- Si tratta di uno spettacolo basato molto sulla fisicità dell’attore protagonista. Ci parli un po’ di Nicola Pianzola.
Nicola è un attore molto bravo con il quale diversi registi vorrebbero lavorare. Il suo corpo in particolare è capace di comunicare qualcosa di molto forte al pubblico. Lui eseguenello spettacolodelle azioni ripetitive ed estenuanti chesi risolvono in unalotta continua tra macchina e corpo, tra il ferro-freddo e il caldo organico del corpo. In questo spettacolo abbiamo lavorato molto ad incorporare i ritmi alienanti della fabbrica, il rischio era quello di diventare lui stesso un automa in scena. Quello che abbiamo cercato di fare è stato invece creare un sottile filo rosso che attraversa tutto lospettacolo in cuisi percepisce che dietro la macchina c’è sempre l’uomo. Questo è stato possibile grazie al lavoro di anni condotto da Nicola sul training dell’attore e sulla ricerca dell’organicità del corpo. Nicola svolge un lavoro quotidiano sullo studio del movimento e da diversi anni ormai insegna in tutto il mondo. Lavorare con lui è sempre una novità perché ci si può spingere ognivolta in territoriinesplorati.
- Dallo spettacolo emerge una terribile solitudine umana. Nel caso specifico si tratta di uno stato d’animo legato al lavoro ripetitivo e frustrante della fabbrica. Credete si possa estendere anche ad altre categorie?
Credo proprio di si. Come già accennavo prima nel progetto di ricerca che stiamo portando avanti siamo partiti da una critica più vasta al sistema di produzione contemporaneo e alla società capitalistica in cui i ritmi frenetici costringono tutti a vivere una situazione di alienazione. La nostra ricerca era partita paragonando la condizione dell’operaio a quella dell’artista,in particolare a quellache noi stessi stavamo vivendo. Infatti nel 2008 quando abbiamo cominciato a lavorare al progetto ci sentivamo “esclusi” da questo sistema sociale, come dimenticati. Rinchiusi in una sala di lavoro per otto ore al giorno e poi senza possibilità di poter esprimere o rappresentare il nostro lavoro. Costretti a fuggire e ad andare a lavorare all’estero come molti giovani tarantini. Da questa prima sensazione è partito tutto il lavoro di ricerca che ha poi assunto la sua autonomia e si è calato nello specifico della situazione operaia ma che ha conservato una serie di significati sotterranei che arricchiscono il lavoro capace adesso di comunicare in modo universale questo senso di frustrazione. Anche nelle nostre rappresentazioni all’estero, in cui il pubblico non capiva l’italiano, e quindi il testo, abbiamo comunque avuto una risposta emozionale molto forte.
- Da cosa deriva questo senso di solitudine? Esiste una via d’uscita? Il vostro personaggio riesce ad individuarne una?
In una prima fase del lavoro il nostro personaggio rimaneva vittima di questo sistema, senza una via d’uscita, poi anche a seguito delle ultime vicende è come emerso un barlume di speranza. La speranza che viene dal ricordo o dal sogno, dalla percezione che nonostante tutto è possibile immaginare un mondo migliore. Lui non esce dal proprio contesto ma lo guarda con occhi diversi in cui un raggio di sole schiarisce lo sporco della fabbrica, in cui può ancora immaginare di essere un bambino che corre in un prato. Il passato, il ricordo di un mondo scomparso serve a dare una speranza per il futuro, per chi è ancora bambino e potrà crescere in un mondo diverso.
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