di Cosimo Spada
È una strana cosa la memoria, anzi, la selezione dei ricordi che decidiamo di tenere. Non parlo tanto di quei ricordi importanti che non dimenticheremmo mai, ma di quelle piccole cose all’apparenza insignificanti con le quali stipiamo certi cassetti del cervello. Io per esempio mi ricordo di attese alla fermata dell’autobus senza alcun evento in particolare che sia successo, oppure di chiacchierate noiosissime con gente che vorrei dimenticare oppure assurde tribune politiche con promesse elettorali mai mantenute. Bella memoria del cazzo devo dire.
Mi ricordo anche di un giovedì più o meno di questo periodo quando facevo la terza media. Quell’uragano ormonale che chiamano adolescenza stava già producendo i primi risultati e io cominciavo a provare una certa fascinazione per le cause perse come la sinistra e certa musica che a pochissimi sarebbe piaciuta. Venivo da giorni di merda, come possono essere di merda solo i giorni di un tredicenne; invece cosa mi succede quel giorno…? No, non feci sesso, no, nessuno mi propose di fondare un social network, noooooo, non mi proposero di essere il candidato premier del centrosinistra. In realtà quel giorno non successe nulla di particolare, ma ricordo tutto di quella giornata.
Anche il disco di oggi ricordo benissimo quando l’ho ascoltato per la prima volta, parliamo di Song for the Deaf dei Queens Of The Stone Age.
Era il 2002 e ancora nessuno di noi sapeva cosa fosse il “Gangnam Style”; avevo da poco scoperto i QUOTSA, e in un pomeriggio autunnale presi il motorino per andare a comprare l’album.
C’è un piacere nel comprare un disco e voler correre a casa per sentirlo, che oggi mi sembra difficile da spiegare nell’era del digitale. Prima di arrivare a casa passai da casa di Paola per scusarmi di qualcosa che avevo detto, manco me lo ricordo, di cosa mi dovevo scusare io stavo pensando al disco dei QOTSA. E infine arrivai a casa.
Inserii il cd nel lettore e via col play.
Parte “You Think i’Ain’t Worth a Dollar, But I feel Like a Millionaire”, e la pelle d’oca è immediata; riecheggia una batteria selvaggia e una chitarra imponente su cui spicca la voce di Josh Homme; neanche il tempo di rilassarsi e parte “No One Knows” con la sua dinamica piano/lento e i cambi di tempo improvvisi. Appena il tempo di prendere fiato e parte “First It Giveth”, dove ancora sono protagoniste la batteria e la chitarra in una cavalcata elettrica. Da solo questo trittico mi inchiodò al muro. Ma anche il resto dell’album non è da meno.
Questo fu il disco di maggiore successo dei QUOTSA. Rispetto ai precedenti è sicuramente un album più melodico, ma non abbandona mai le sonorità pesanti del loro DNA.
Essendo i QUOTSA un super gruppo molta della loro forza viene anche dalle collaborazioni, sicuramente il punto di forza di questo album è la partecipazione alla batteria di Dave Grohl, qui in una delle sue migliori prestazioni al suo strumento. E poi c’è Mark Lanegan, l’ex leader degli Screeming Trees, che oltre che autore canta con il suo vocione in quattro canzoni tra cui vi segnalo “A Song for the Deaf”.
Ci sono album che richiedono tempo per essere apprezzati, questo invece è un album che arriva subito, che vi piaccia o meno di certo non si nasconde.
Beh ho concluso per oggi. Mentre scrivo queste ultime righe sono circondato dai miei amici che mi coglionano, mai come in questo momento vorrei ancora nelle orecchie a tutto volume Song for the Deaf.
Mentre scrivevo questo pezzo ascoltavo
The Men, New Moon, 2013