di Luca Frosini
Puntiamo subito al sodo, per una volta: l’elezioni ci hanno lasciato un Paese ancora più ingovernabile del solito, caotico e frammentato, dove si mette addirittura in discussione la possibilità stessa di formare un governo un minimo stabile, che non cada alla prima pausa catetere di un pugno di parlamentari e che abbia un po’ di libertà di incidere sulla disastrata situazione nazionale.
Un’evenienza, quella di rimanere senza un esecutivo, che è stata giudicata da molti espertoni e non come positiva, anzi auspicabile vista la presunta centralità dell’assemblea parlamentare rispetto al consiglio dei ministri, accentrando così la vita politica interamente sul primo soggetto per fare a meno sul secondo, scomodo vicino responsabile dei passati disastri e del malaffare politico, almeno a sentire una determinata corrente di pensiero.
L’esempio portato per rafforzare tale opinione riguarda la particolarissima situazione del Belgio, “tranquillo” e prospero paese europeo capace di sopravvivere senza governo per più di 541 giorni, un lasso di tempo lunghissimo che però non ha impedito al piccolo Stato una certa tenuta rispetto alla crisi, conoscendo perfino un periodo di crescita economico secondo solo, numericamente parlando, alla locomotiva tedesca.
Per poter spiegare bene cosa è successo intorno a Bruxelles tra l’Aprile 2010 e il Dicembre 2011, cercando di capire quanto sia fondata la “bontà” di una situazione simile, bisogna necessariamente partire dalla sua particolare situazione socio geografica. Il Belgio è infatti instabile per natura, diviso tra due zone dai tratti fortemente specifici come la Vallonia francofona e le Fiandre di parlata olandese, diversissime per storia, tradizioni ed economia, una spaccatura che mette periodicamente in discussione la stessa unità nazionale. Il re, il Capo dello Stato, per dire è indicato come monarca non del Belgio ma dei belgi, a significare un rifiuto quasi fisiologico per l’idea di un’unica identità statuale tra le due parti.
Un caos simile non può che ripercuotersi anche a livello istituzionale, dove i principali partiti e formazioni hanno le proprie specifiche territoriali. Abbiamo quindi il Partito Socialista fiammingo e vallone, il Centro Democratico fiammingo e vallone, nazionalisti da ambo le parti e così via. La “schizofrenia” partitica, che ha visto realtà dalla sigla uguale su posizioni contrapposte proprio per via delle differenze etniche, insieme al carattere estremamente frammentato del consenso elettorale, hanno reso da sempre molto difficile arrivare ai compromessi necessari per avviare un esecutivo di coalizione, tanto che già nel 2007 e nel 2008 la poltrona di premier rimase vuota per 194 giorni. Nonostante questi trascorsi la “follia” iniziata nell’Aprile 2010 ha però pochi precedenti, divenendo esplosiva anche per le serie minacce all’integrità del Paese date ad un certo punto per sicure se non inevitabili.
Tutto iniziò con le dimissioni del primo ministro Yves Laterme, democristiano fiammingo, reduce da uno strambo balletto istituzionale con il collega Van Rompuy, suo predecessore, poi successore ed infine portato a ripassarli il testimone a fine 2009 per qualche altro mese, fino alla conclusione forzata della sua esperienza appunto nell’aprile dell’anno dopo. L’incapacità delle altre forze di trovare una nuova maggioranza stabile produsse quindi una situazione di stallo dalla durata inusitata, dove Laterme e i suoi rimasero in carica da dimessi per mesi, con poteri ridottissimi ma comunque ancora presenti nelle stanze del potere, tanto da rappresentare senza problemi il Paese nei vari consessi internazionali e capace di prendere decisioni molto importanti, come la partecipazione alla guerra in Libia.
Ad aggiungere pepe alla faccenda si aggiunse ben presto la grande avanzata elettorale delle formazioni nazionaliste più aggressive come la Nuova Alleanza Fiamminga, che nelle elezioni dell’estate 2010 divenne, dall’alto del suo 17 % di consensi, il primo partito della Nazione. L’instabilità data appunto dalla tornata elettorale appena richiamata non risolse per nulla la situazione, anzi. Le istanze violentemente populistiche del gruppo, guidato dal corpulento e carismatico Bart de Wever ed interessato in primo luogo alle istanze autonomiste delle sue Fiandre, non gli consentirono di trovare le necessarie sponde per arrivare ai piani alti, spingendo così il re Alberto II ad affidare un mandato esplorativo al socialista vallone Elio di Rupio, capace di formare finalmente un Governo alla “tutti dentro tranne De Wever” nel dicembre 2011 e tuttora in carica.
Questo è tutto, almeno a livello di fredda cronaca giornalistica. L’eredità del lungo stallo ha portato ad effetti profondi: dell’ingessamento del governo e della sua obbligata mancanza d’iniziativa hanno approfittato le autonomie regionali e comunitarie, responsabilizzate agli occhi degli elettori e desiderose di mostrare loro quanto è bello l’autogoverno senza dover badare a mettersi d’accordo anche con i compatrioti di lingua diversa. Una “competizione”, quest’ultima, per una volta virtuosa, che approfittando del riparo dalle politiche di austerità ha anche portato a una crescita economica in controtendenza con i colleghi europei, alimentata però dal desiderio di rompere l’unità nazionale più che da una tensione allo sviluppo economico o alla buona amministrazione.
Inoltre con o senza governo il Belgio si è assunto nuovi debiti proprio di recente e quindi non può aumentare le spese per finanziare politiche espansive, comunque da condividere tra fiamminghi e valloni, conservatori e progressisti e così via, che invece si sono messi insieme eccezionalmente per fare l’esatto contrario. In sostanza i belgi non sono mai stati tanto lontani dall’essere “senza governo” e non è affatto chiaro se il lunghissimo periodo speso per trovare una maggioranza, tra l’altro con compiti simili a quelli di Monti in Italia come calma mercati, sia stato qualcosa di più di una pausa prima dell’inevitabile, un vantaggio netto o al contrario un lusso che poi sarà pagato caro nei prossimi anni. L’unica cosa certa è che il Paese non può attendersi niente di molto diverso nemmeno nel medio e lungo periodo, a meno di non spaccarsi in due o di trovare un miracoloso ingrediente unificante.
Non sembra proprio l’esempio adatto dal quale ricavare la dimostrazione che la sua particolare e lunghissima “assenza di governo” sia da ipotizzare addirittura come preferibile a qualsiasi altra soluzione in altri Paesi, compresa la nostra povera Penisola.