E’ in libreria da circa un mese il nuovo libro di Riccardo Gazzaniga dal titolo “A viso coperto”, vincitore del premio Calvino 2012. Si tratta di un romanzo particolarmente interessante e innovativo perché capace di raccontare contemporaneamente due universi tra loro paralleli e opposti: quello dei celerini e degli ultrà. Il giovane autore genovese, oltre ad essere poliziotto, ricopre il ruolo di delegato sindacale SILP per la CGIL e, attraverso la sua scrittura, è in grado di trasmettere al lettore le emozioni e l’adrenalina degli scontri allo stadio. Abbiamo deciso di intervistarlo per conoscerlo meglio e per esplorare in modo più dettagliato alcuni particolari del suo romanzo.
Il tuo è un libro “forte” in tutti i sensi: il linguaggio, la psicologia dei personaggi e il tema stesso che hai scelto di affrontare rivelano la brutalità dell’essere umano a prescindere da come esso venga classificato. Dall’altra parte però emerge il tuo tentativo di andare oltre la violenza per mostrare anche il lato sentimentale della vita. Una metafora tra tutte mi ha colpito: gli scontri come onde di mareggiata. Ti è mai capitato di perdere il controllo per “abbandonarti alla marea”?
Sarebbe ipocrita dire che in 16 anni di Polizia non mi è mai capitato di avvertire le emozioni “oscure” di cui parlo nel mio libro. La cosa importante è rendersene conto e gestire questa reazione, sia dentro sé stessi che nei colleghi con cui si deve lavorare. Credo che parlare di questi aspetti sia un modo per far capire anche ai cittadini la difficoltà del nostro lavoro.
Il romanzo si intitola “a viso coperto”, espressione che evidenzia una condizione comune ad ultrà e polizia: l’incapacità di vedersi a vicenda. Pensi che questo aiuti ad ignorare il fatto di avere di fronte a sé un altro individuo e quindi ad agevolare la violenza?
Complimenti, questo è un tema che in pochi colgono. C’è un punto nel romanzo in cui parlo di queste figure senza volto, corpi senza identità. La “disumanizzazione” è il primo passo per esasperare il contrasto. Avere di fronte persone che non hanno un viso, un’espressione, che non lasciano trapelare emozioni dietro le sciarpe o i caschi, fa sentire “l’altro” ancora più distante e ostile. In qualche modo permette anche il liberarsi della violenza, in quanto si può perdere il senso di avere davanti a sé una persona, vedendo solo una minaccia o un nemico.
In alcuni casi racconti di come in polizia svanisca la volontà di garantire l’ordine pubblico per abbandonarsi ad un senso di vendetta nei confronti degli ultrà di turno o ancora dell’euforia che gli scontri sono capaci di suscitare. Si tratta di verità che ufficialmente non vengono ammesse. Pensi che i tuoi colleghi siano consapevoli di tutto questo? (Se sì, pensi che si tenda a sottovalutare l’adrenalina dei poliziotti?)
Si tratta di un tema ovviamente spinoso, quello che posso affrontare da romanziere più che da poliziotto. Credo sia necessario fare delle riflessioni su questi aspetti, che prima non sono mai stati considerati. Purtroppo la tendenza, quando la Polizia sbaglia, è quella di censurarla e limitarla. Sarebbe utile invece cercare di analizzare gli errori e i contesti operativi e capire cosa si può fare per evitare sbagli. Anche perché ormai sono pochissimi i paesi in cui vi è la gestione così “fisica” dell’ordine pubblico che abbiamo in Italia. Cosa che invece avviene in altri paesi, dove il contatto tra poliziotti e manifestanti è una extrema ratio.
Nel libro emerge un senso di insoddisfazione dei poliziotti nei confronti di uno Stato che spesso non riconosce loro alcun merito. Pensi che questo senso di frustrazione influisca sulla vostra psicologia e quindi di conseguenza sul vostro operato?
Senza dubbio. Personalmente credo che l’assenza di meritocrazia quasi totale che affligge tutto l’impianto dei lavoratori statali sia un grave disincentivo per il personale.
Pensi che dopo le ultime vicende (vedi i casi Cucchi o Aldovrandi) la polizia abbia perso credibilità fra la cittadinanza?(Se sì, come pensi debba agire per recuperare fiducia?)
Sono vicende terribili che hanno ferito l’opinione pubblica, per quanto la vicenda Cucchi non riguardi direttamente la Polizia di Stato.
La fiducia e la credibilità della cittadinanza si possono conquistare solo con l’apertura e la collaborazione. Anche la cittadinanza dovrebbe desiderare una polizia più efficiente e che operi secondo protocolli chiari, che abbia strumenti per agire, anche di coazione fisica che permettano di intervenire su una persona limitando al minimo i danni per tutti ed evitando tragedie come quelle che si sono verificate.
E poi serve la trasparenza, come ha detto il Ministro Cancellieri: la Polizia deve essere una casa di vetro.
Torniamo al libro, allora. Oltre al tema della violenza negli stadi il tuo libro ripercorre tutta una serie di problematiche legate al nostro Paese che i poliziotti, come i comuni cittadini, avvertono quotidianamente. Mi riferisco ai medici che prescrivono malattie fittizie, alla legge che punisce solo “gli avanzi della società” lasciando che i potenti non paghino mai e ai sindacati e ai politici che trascurano i loro doveri. Pensi che tutto questo contribuisca ad alimentare la violenza nella nostra società?
Per adesso non è stato così. Mi pare che però l’esasperazione delle persone stia crescendo in modo preoccupante. Purtroppo in molti casi il poliziotto che fa ordine pubblico diventa per il cittadino l’unico interlocutore di uno Stato visto come distante.
Sempre con riferimento alla domanda precedente: ti è mai capitato di doverti scontrare con qualche amico?
Scontrare direttamente, no. Mi è capitato di perquisire un compagno delle elementari all’ingresso della curva. Prima ha fatto una battuta stupida, perché non mi aveva riconosciuto. Poi mi ha salutato e mi ha detto “che brutto mestiere che hai scelto” .
Il romanzo è tutto al maschile, come se non esistessero donne in polizia o fra gli ultrà. Le uniche immagini femminili che emergono sono quelle di mogli, compagne e amanti… immagino non sia un caso. Perché analizzare solo un panorama di uomini?
Perché il Reparto mobile è un mondo maschile: per legge non sono previste donne nelle nostra fila.
Altrettanto vale per gli ultrà: le donne che partecipano attivamente a un’azione sono rarissime.
Hai trattato delle vite e della psicologia di tantissimi personaggi. Se tra la polizia immagino tu possa esserti ispirato ai tuoi colleghi, come hai fatto ad immaginare i pensieri degli ultrà?
Ho conosciuto negli anni diversi ragazzi che sono stati vicini agli ultrà. Non ci crederai, ma anche in polizia c’è qualche ragazzo che ha avuto un passato in curva. Magari senza comportamenti violenti, ma con la possibilità di raccontarti direttamente certi meccanismi. E poi c’è Internet, uno strumento potente: forum, blog, video. C’è anche parecchia saggistica, scritta da ultrà, ma pochissima narrativa.
Infine, ma questo lo avranno notato già in molti prima di me, filo conduttore dell’intero romanzo sembra essere il “gruppo”. Nel bene e nel male tanto gli ultrà, quanto i celerini sono legati al proprio nucleo ed è come se vigesse un codice che impone loro di rimanervi fedeli ad ogni costo. Quando pensi si possa abbandonare il gruppo per affermare la propria libertà d’opinione?
Beh, il quando dipende dal singolo. Il gruppo si può abbandonare sempre, in qualsiasi momento, ma non è semplice perché offre un riparo, un conforto, un’identità, una serie di valori (o disvalori, dipende) dirompenti nella loro semplicità. E ha un forte potere condizionante sui membri. Il gruppo crea legami che appaiono insolubili ma che poi, come nel libro, possono rivelarsi fragilissimi.
Complimenti, ex nipotina. Puntiale e pertnente