È sempre meglio dal vivo

di Cosimo Spada

È inutile che ci giriamo attorno e che ci diciamo delle bugie: internet non serve a un cazzo per fare incontri.

Siamo ormai nell’epoca della identità liquida, dove dentro la rete ti puoi permettere di essere chi ti pare senza rimanere bloccato nelle vecchie ed obsolete categorie di uomo/donna/trans/peluche.

Per esempio, questo articolo a firma Mimmo Spada potrebbe invece essere scritto da Gianni: un adolescente problematico, con un passato difficile ma con tanta voglia di emergere. Oppure questo articolo lo potrebbe stare a scrivere Giulia: giornalista trentacinquenne single con una turbolenta vita sentimentale ma con l’intima voglia di vivere una travolgente e duratura storia d’amore.
Oppure questo articolo lo sto scrivendo io, Massimo, ex comunista, ex premier ed ex tante altre cose che neanche me le ricordo, ma mai ex velista questo è sicuro. Come vedete chiunque stia scrivendo davvero questo articolo il problema non sarà  tanto cosa dice, ma che tipo di approccio avere. Come quando vi devono presentare una persona interessante e voi dite: “Beh com’è?” e vi dicono subito: “È simpatica/o”. E voi sapete che l’unico modo che avrete per capire chi vi stanno presentando è incontrare questa persona correndo il rischio che l’aggettivo “simpatico” in realtà sia una pezza per mascherare altri aggettivi preoccupanti.

Con le band funziona alla stessa maniera, tu ascolti l’album e ti piace, magari ti piace parecchio; però il giudizio è viziato dalla tecnologia che può intervenire sulla registrazione del disco e quindi devi assolutamente vederli dal vivo per capire chi hai davanti.

Benché l’industria discografica abbia vissuto negli anni 60 il suo momento d’oro, il metro di giudizio sul valore di un’artista o di una band è sempre rimasta l’esibizione dal vivo. Negli studi di registrazione si poteva ricorrere a turnisti che registravano al posto dei musicisti delle band (lavoro che per lungo tempo fece Jimmy Page) oppure, con l’evolversi della tecnologia, si poteva modificare ciò che si registrava per eliminare degli errori. Per cui il concerto rimaneva l’unico strumento reale di giudizio.

Con il rock, poi, il concerto diventa la santa messa e non tutti i suoi devoti possono permettersi di andarci, per motivi economici o geografici. Per arrivare a tutti questi poveri devoti nasce l’album live (ma segretamente ispirato dal capitalismo).

A me personalmente non fanno impazzire gli album dal vivo, nessuna registrazione rende mai perfettamente l’atmosfera, l’energia o il suono che avverti ad un concerto. Ma esistono ovviamente delle eccezioni. La mia eccezione è Live at Leeds degli Who.

Se non conoscete nulla degli Who, oltre a dirvi che vi dovreste vergognare, vi dico che gli Who sono stati essenzialmente una delle migliori live band di tutti i tempi. Quattro musicisti dalle forti personalità che le esprimevano attraverso i loro strumenti. Furioso è l’aggettivo che più si addice per spiegare il loro modi di suonare. La chitarra nervosa di Pete Townshend, la batteria selvaggia di Keith Moon, la voce imperiosa di Roger Daltrey e il basso fragoroso di John Entwistle.

Live at Leeds è il risultato di due concerti tenuti il 14 e il 15 febbraio 1970 presso l’università di Leeds e la vicina Hull. Breve parentesi: gli Who in una università. Mentre qui da noi a Taranto al massimo abbiamo quelli del Rotary che fanno le loro cene all’università o politici che si fanno i loro spot elettorali nelle aule, come vidi io stesso qualche anno fa. Stendiamo un velo pietoso e torniamo all’articolo.

I  concerti furono due ma per problemi tecnici sul vinile finirono solo 37 minuti, ma che bastarono per far piazzare quell’album ai primi posti tra gli album migliori della storia del rock. Nel 95 fu possibile recuperare e rimasterizzare il materiale che originariamente non aveva trovato posto nel disco originale, completando poi il lavoro nl 2001 e nel 2010. io per esempio posseggo la versione del 2001.

gli Who di quel periodo sono quelli di Tommy, la loro prima opera rock. Se da  un lato erano riusciti a costruire un album molto complesso sia per la musica che per i concetti espressi. Dall’altra parte però dal vivo gli Who rimanevano ancora i selvaggi musicisti di un tempo, anche se rispetto agli inizi erano notevolmente migliorati nell’esecuzione.

Ciò che colpisce è il contrasto tra l’aggressività della musica e le chiacchiere che la band scambia con il pubblico tra un canzone e l’altra, come succede al termine di Young Man Blues, dove Pete scherza sul successo di alcune loro canzoni fuori dalla Gran Bretagna. Un altro momento importante dell’album è la lunga esecuzione di My Generation (15:49 minuti) che diventa un contenitore per un medley di altri pezzi See Me Feel Me,  Listening To You, “Underture, con una conclusione così rumorosa che ogni volta che l’ascolto penso con orrore alle orecchie di quelli in prima fila. Per concludere ci sono anche le due cover di classici del rock n’ roll degli inizi: Summertime Blues di Edie Cochran e Shakin All Over di Johnny Kidd and the Pirats, che nella versione degli Who diventano molto più robuste.

Live at Leeds più che un album dal vivo rappresenta un colpo al cuore per tutto quello che non potremo mai più ascoltare dal vivo da questa band (gli ultimi tour neanche li prendo in considerazione).

 

Questo articolo è stato scritto orgogliosamente da Gianni, Giulia e Massimo (che domani si dissocerà).

 

Mentre scrivevo questo pezzo ascoltavo

Tyler the Creator, Wolf, 2012

2 Comments

  1. Angelo Aprile 29, 2013 1:44 pm 

    Grande articolo. Grandi Who…
    Se qualcuno si volesse avvicinare a loro, percorrendo “vie traverse”, vi consiglio di sentire la versione di Baba O’Riley eseguita dai Pearl Jam al Madison Square Garden di NY nel 2003.

    http://www.youtube.com/watch?v=421znDHGDAE

  2. Mimmo Spada Aprile 29, 2013 6:28 pm 

    grazie Angelo, la passione dei Pearl Jam, e sopratutto di Eddie Vedder, per gli Who è risaputa, dal vivo suonano molto fedeli agli originali. non è una cosa facile

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