di Lucia Schiavone
“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”: Primo Levi in “Se questo è un uomo”esprime, da disincantato testimone, l’impotenza, l’afasia del dolore, la debolezza dei progetti della coscienza e del dialogo, la disfatta dei valori e della ragione, una reazione tutta umana, la sua, alla deportazione nel campo di Monowitz(in polacco Monowice)- Buna, appendice di Aushwitz, in Polonia, nel 1944, dove conosce la Verità sulla “soluzione finale”: programmata dal nazifascismo tedesco del ‘900 per estirpare dalla faccia della Terra, col lavoro forzato prima e le camere a gas dopo, tutti gli oppositori politici ed asociali, portava a compimento il progetto di una società perfetta secondo i dettami della potenza, dell’efficienza, del culto dello Stato. Levi, tuttavia, muto per anni, senza più un nome, una famiglia, una cultura, una lingua, una posizione sociale, salvato dal destino e fuori dal Campo, troverà le parole universali ed eterne per descrivere quei fatti ed esprimere indignazione e speranze di memoria oltre ad un monito: “Vi comando queste parole./Scolpitele nel vostro cuore…”. (altro…)