Garantiti contro non garantiti, giovani senza tutele contro pensionati “tutelatissimi”, fannulloni contro lavoratori iperproduttivi, partite IVA contro lavoratori dipendenti e, naturalmente, tutti contro i sindacalisti. Ci sono voluti trenta lunghi anni per destrutturare il mondo del lavoro e derubricarlo a coacervo di infinite identità lavorative l’una contro le altre armate; e, dopo aver sdoganato il mito dell’individualismo spacciato ad arte come massima espressione di libertà, ci hanno suggerito che è indispensabile poter scegliere la marca di dentifricio che più ci aggrada per essere cittadini liberi. Chi ha voluto fare ciò l’ha fatto attraverso la strategia più antica del mondo: divide et impera, aiutato dalle note armi di distrazione di massa. Anche i processi produttivi sono stati suddivisi in sequenze di azioni, ciascuna delle quali replicata all’infinito dal singolo lavoratore durante la giornata lavorativa; e non è un caso se lavori più complessi (nel senso della moltitudine di processi da svolgere e di conoscenze da applicare) hanno “tenuto” maggiormente da un punto di vista contrattuale e retributivo. E, di conseguenza, non è un caso se i media italiani – senza mai controllare le inaffidabili fonti – ci bombardano con il mantra dell’eccessivo numero di laureati in Italia, quando invece è l’esatto contrario: in Italia ci si laurea poco e, unico caso nel novero dei paesi OCSE, le iscrizioni alle Università si riducono.
Quando si è in pochi sul posto di lavoro – come succede nelle piccole aziende italiane – o quando si è in molti ma divisi in casa (perché “se l’azienda inserisce te in un percorso professionale fa fuori me” – come succede nelle grandi competitive aziende di tutto il mondo), le pretese del datore di lavoro saranno sempre più pressanti e il lavoratore dovrà cedere, a meno che non abbia accumulato ricchezze tali da potergli permettere la libertà di proferire le famose parole: “io me ne vado”. Le rivendicazioni vanno sempre agite collettivamente, ed è per questo che le organizzazioni sindacali, con tutti i loro limiti, hanno un ruolo decisivo. Qualcuno sa come reagisce il padroncino di turno delle microscopiche aziende italiane quando il lavoratore (fungibile con un clone) va a reclamare il proprio salario non pagato da mesi e dice: “Vengo qui a chiedere il mio stipendio da solo, ma potrei tornare con gli altri colleghi”? Il datore di lavoro che non può minacciare la delocalizzazione replicherà immediatamente : ”parla per te, tu non rappresenti gli altri”. Ha paura che i lavoratori/cloni si organizzino!
Troppo facile prevedere che questo sarà un anno decisivo per le sorti di ciò che deve tornare ad essere lavoro e del lavoro vogliamo parlare, aperti ad ogni proposta e ad ogni provocazione. È utile smitizzare qualche luogo comune e chiarire il perché, utilizzando termini solitamente ascritti all’ideologia di una vecchia sinistra incapace di capire le trasformazioni del mondo moderno – queste sono più o meno le parole che ci sentiamo spesso rivolgere – , ci riteniamo meno ideologici e più moderni dei nuovisti che hanno capito la complessità dell’attualità.
Per esempio: perché, al netto di notevoli e sempre più rare eccezioni, ci piace continuare a chiamare alcuni imprenditori padroni?
I due grafici rappresentano l’andamento della produttività del lavoro e del salario reale negli Stati Uniti (molto banalmente si tratta del prodotto per unità di lavoro negli USA e del salario depurato dall’aumento dei prezzi). A partire dagli anni Ottanta – cioè da quando le politiche di deregolamentazione del lavoro e dei capitali vengono introdotte da Reagan con la scusa che lo Stato “è il problema dell’economia” – la produttività delle attività manifatturiere sale enormemente mentre i salari reali si riducono. In soldoni: la quota di prodotto fabbricata nelle aziende americane resta agli imprenditori in proporzioni tali da determinare una continua cospicua caduta della quota salari su prodotto interno lordo. Poiché l’equità distributiva è garantita se produttività del lavoro e salari reali crescono o decrescono nella stessa proporzione – cioè se le linee del grafico sottostante si sovrappongono -, si è verificata una sorta di appropriazione indebita di quote di reddito da parte degli imprenditori da un certo momento in poi. La stessa cosa è successa, in misura inferiore, in Europa e, fino a 10 anni fa, in Italia. Insomma, nelle nostre economie di mercato i buoni imprenditori saranno pure mossi dal fuoco sacro della competizione per sbaragliare il campo da scomodi avversari, ma almeno per 30 anni sono andati d’amore e d’accordo su almeno una pratica aziendale: sottrarre quote di reddito ai loro lavoratori.
E cosa è successo quando la produttività è crollata perché lorsignori non hanno certamente investito i soldi accumulati in tre decenni di sfruttamento per sostenere la produzione? Cosa è successo quando i consumi si sono bloccati proprio perché i redditi reali sono rimasti stagnanti ed i prodotti sono rimasti sugli scaffali dei supermarket? Semplice: hanno continuato a non investire – tanto da far coniare agli economisti il neologismo sciopero degli investimenti – e si sono inventati la balla della scarsa flessibilità del lavoro imputando il crollo della produttività ai fannulloni e alle eccessive pastoie delle leggi sul lavoro, quando invece i dati raccontano altro.
E ci hanno propinato Jobs Act quasi identici in tutta Europa attraverso i propri portaborse istituzionali opportunamente piazzati sugli scranni delle più alte cariche governative, Presidenti della Repubblica inclusi. E hanno depenalizzato con provvedimenti ad hoc reati perpetrati ai danni delle persone più deboli, ai danni del patrimonio pubblico (leggere alla voce “falso in bilancio”) e ai danni della salute delle persone (leggere alla voce ILVA Taranto).
Per dirla con Domenico Tambasco: «È evidente che la facoltà riconosciuta per legge al datore di porre fine al rapporto di lavoro per qualsivoglia minimo illecito disciplinare – di per sé punibile anche solo con un richiamo verbale – a fronte del pagamento di un mero indennizzo economico – indennizzo modesto soprattutto nei primi anni del rapporto – trasforma in modo radicale la figura del prestatore di lavoro subordinato (e del relativo rapporto), un tempo definito dal codice civile come colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa” (art. 2094 c.c.). Il rapporto di lavoro subordinato dunque non è più il sinonimo della collaborazione e della cooperazione nell’ambito dell’organizzazione produttiva, in cui datore e prestatore interagiscono in un’ottica di parità ed equilibrio contrattuale, ma al contrario si riduce alla mera e bieca sottomissione del prestatore di lavoro ad un volere tanto arbitrario quanto paternalistico, in cui il destino personale e lavorativo è rimesso alla – di fatto – insindacabile volontà altrui. Siamo al ritorno del padrone»[1].
Ecco, invece di sbranarci tra noi per stabilire chi debba sopravvivere con l’osso più o meno grande misericordiosamente lanciato dal padrone, sarebbe il caso di tornare umani quel tanto che basta per ricordare, almeno, che l’eliminazione dei diritti dei penultimi non è mai stato il viatico per il miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi.
[1] D. Tombasco, Jobs Act e il ritorno del padrone, MicroMega-online