Parte III: La caduta
209 a.C. Quinto Fabio Massimo e le sue truppe romane avanzavano verso la costa ionica. L’obbiettivo era una città ribelle che da tre anni lottava contro le guarnigioni latine asserragliate all’interno dell’acropoli: Taranto. Il generale romano era conosciuto come “cunctactor“, il temporeggiatore, in quanto la sua tattica principale era quella di combattere il nemico con manovre di guerriglia, evitando lo scontro in campo aperto. Prima di avere l’incarico dal Senato di riprendere Taranto, Fabio Massimo aveva già combattuto il cartaginese Annibale in Italia, causandogli non pochi problemi. Il romano aveva capito che il punico era troppo scaltro per essere combattuto direttamente sul campo, una lezione che i romani impararono a Canne. L’esercito romano si accampò, molto probabilmente, su un promontorio nella parte nord o ovest della città, in modo di avere un contatto diretto con i commilitoni assediati nella Rocca.
I tarantini e i cartaginesi, nel frattempo, erano impegnati in una convivenza difficile, in quanto il gran numero di soldati (composti non solo da cartaginesi, ma anche da galli, bruzzi, ecc.) aggravava sulle risorse alimentari cittadine. Questo portò i tarantini a chiedere che la flotta punica lasciasse la città così da portar via una buona parte dell’esercito alleato. Gli stessi tarantini furono costretti a consegnare la propria flotta ad Annibale per poter dare man forte all’altra grande alleata del condottiere cartaginese: la Macedonia di Filippo V. L’allontanamento delle flotte fu una delle cause che portò alla disfatta punico-tarantina.
Quinto Fabio Massimo capì che un’azione diretta contro la città sarebbe stata inutile: le fortificazioni nell’area orientale erano ben controllate e una piccola parte passava in una zona palustre difficile da valicare (Salinella); anche una sortita dall’acropoli sarebbe stata inutile, in quanto lo spazio di manovra era molto ristretto, e i suoi uomini sarebbero stati sicuramente respinti dai bastioni posizionati all’imboccatura della penisola.
La fortuna arrise al generale. Le fonti storiche narrano che una donna tarantina si innamorò del comandante della guarnigione bruzzia. Ella, però, era sorella di un soldato che militava nell’esercito romano (non tutti i tarantini erano contro Roma, molti combatterono contro Annibale nella battaglia del Lago Trasimeno e a Canne; con loro il cartaginese fu clemente e li fece tornare in patria, ma altri erano ancora nelle file romane). Il fratello riuscì in qualche modo a far giungere la notizia ai suoi commilitoni e al generale Fabio Massimo. Quest’ultimo capì che era un’occasione da sfruttare ed ordinò che al capo dei bruzzi si promettessero vari doni e gratificazioni se avesse aperto le porte all’esercito romano. Il comandante bruzzo accettò.
In una notte apparentemente tranquilla, dalla Rocca e dal mare si udirono suoni di guerra. Le navi romane si avvicinarono alle mura, tentando di far sbarcare i soldati su un lato dalla città, mentre dall’acropoli i romani tentarono una sortita per sfondare la resistenza tarantina e punica che li assediava da anni. I soldati punici e i ribelli tarantini si portarono in massa nelle aree attaccate lasciando esposto il lato orientale. Le mura ad est, ora sguarnite, furono prese d’assalto dai bruzzi, che ne uccisero le poche guardie e aprirono le porte a Fabio Massimo e al suo esercito, che in gran segreto aveva aggirato il Mar Piccolo. I romani entrarono in città in gran numero attraversando la necropoli tarantina completamente indisturbati. Raggiunte le prime case, i soldati latini appiccarono il fuoco alle abitazioni e provocarono il caos tra la popolazione. I tarantini e i cartaginesi si accorsero troppo tardi di quello che stava succedendo. Il generale Cartalone, comandante della guarnigione punica, aveva avuto in passato rapporti cordiali con Fabio Massimo e decise di parlamentare ma, giunto dal generale romano, fu trafitto e ucciso da un soldato.
Ormai la città era nelle mani romane; chiunque incrociava le loro spade veniva infilzato. Le ultime resistenze tarantine si radunarono nell’agorà per un’ultima disperata difesa, ma fu tutto inutile e vennero sbaragliate. I protagonisti della rivolta tarantina ebbero sorti diverse: Democrate e Nicone caddero in combattimento; Filemeno fu visto fuggire a cavallo ferito a morte (di lui si disse che fosse in seguito caduto in un pozzo, dopo essere stato disarcionato); di Tragisco la sorte rimase sconosciuta. Le strade erano piene di cadaveri e sangue; tra i caduti si scorsero gli stessi bruzzi, uccisi dai romani poiché la verità sulla caduta di Taranto doveva rimanere ignota. La maggior parte della popolazione fu resa schiava o uccisa. I romani saccheggiarono l’enorme patrimonio monumentale e artistico della città: tra queste, fu trafugata la grande statua bronzea di Eracle posizionata sull’acropoli. Solo la grande statua di Zeus rimase inviolata, in quanto troppo difficile da trasportare; famosa fu la risposta di Fabio Massimo ad un soldato che gli fece notare la difficoltà del trasporto: “Lasciate gli dei irati ai tarantini”.
Questa fu la fine dell’autonomia della polìs di Taranto, ormai assimilata nel territorio della Repubblica romana. Annibale arrivò troppo tardi e trovò la città conquistata dai suoi nemici; venendo a conoscenza della modalità della sconfitta, il cartaginese esclamò: “Anche Roma poi ha avuto un Annibale, come abbiamo vinto Taranto così l’abbiamo persa”.
BIBLIOGRAFIA
Polibio, Le storie.
Tito Livio, Ab urbe condita.