“Cancellare l’Art. 18 significa consentire al padrone di liberarsi dei lavoratori scomodi, che turbano l’esercizio del potere di comando senza giungere a comportamenti che darebbero causa per un licenziamento. Chi oserà mai parlare sulle condizioni di lavoro, le misure di sicurezza, lo sfruttamento? Chi rischierà di organizzare i compagni di lavoro nella protesta?” (Massimo Villone)
Con riferimento al circo mediatico italiano che occulta la realtà dei fatti, qualche giorno fa si parlava con un amico e maestro di Brindisi circa la nuova conduzione del programma Ballarò, affidata al giornalista economico di Repubblica, Massimo Giannini. L’amico diceva: «Massimo Giannini è un giornalista serio, ha conoscenza di materia economica ed è onesto». Chi scrive avanzava riserve non certo sulla preparazione di Giannini, quanto sulle concrete possibilità e volontà di raccontare i fatti economici così come sono. Bisogna ammettere che, nel suo editoriale del 22 Settembre, in prima serata Giannini ha elencato condivisibili dati di fatto: l’Art. 18 è lo scalpo del lavoratori italiani da dare in regalo all’Europa per cercare di evitare il commissariamento della Troika (o, almeno, di ritardarlo); l’Art. 18 è già stato depotenziato in modo consistente dalla Riforma Fornero del 2012 e, nonostante ciò, da allora l’Italia ha perso altri 500.000 posti di lavoro; è molto pericoloso eliminare questa tutela senza aver prima varato una riforma degli ammortizzatori sociali finalizzata a creare un meccanismo di tutela per il singolo in caso di disoccupazione di lungo periodo; il vero problema dell’Italia (e non solo dell’Italia) è la scarsa attitudine ad investire da parte degli imprenditori italiani che preferiscono fare competitività attraverso una riduzione nominale dei salari piuttosto che attraverso lo sfidante impegno di capitali propri di rischio; l’Italia è il paese delle rendite di posizione regalate agli amici e a Confindustria, rendite che questo governo sta piuttosto cementando e non certo mettendo in discussione; il posto del PD dovrebbe essere ovunque c’è un diritto da difendere, più che dove c’è una “riforma” da realizzare che cancelli questi diritti; l’apartheid nel mondo del lavoro si combatte estendendo i diritti, non riducendoli.
Non si riesce, però, a capire perché, quando si tratta di fatti economici di particolare rilevanza, accanto alle personalità politiche – che ovviamente devono commentare le materie trattate – non si confrontino anche due esperti del mestiere, due economisti con convinzioni opposte. Qualche minuto dopo l’ottimo prologo di Giannini, il Ministro Alfano ha affermato che: «Bisogna eliminare l’Art. 18 perché abbiamo milioni di disoccupati e dobbiamo dare una mano agli imprenditori per semplificare ed agevolare le assunzioni; poi abbiamo un sistema antico e gli imprenditori non fanno fare alle proprie aziende il salto dimensionale dal momento che l’Art. 18 scatta nelle aziende da 15 dipendenti in su e loro si fermano a 14 assunzioni perché sanno che, poi, non potranno licenziare. Queste riforma è richiesta dall’OCSE, dal FMI, dalla BCE e dalla Banca d’Italia». In merito alle poche parole dette da Alfano sull’Art.18 un economista eterodosso – verrebbe da dire “un economista non allineato ai voleri dei poteri forti” – prima di tutto avrebbe evidenziato che OCSE, FMI, BCE e Banca d’Italia non sono oracoli, ma organismi economici internazionali famosi, in questi ultimi anni, soprattutto per i loro errori di previsione e per le ricette economiche fallimentari; un esempio per tutti è il madornale errore nel calcolo del moltiplicatore della spesa pubblica da parte del FMI su cui si basava la teoria dell’austerità espansiva (che il nostro Governo continua comunque ad adottare nonostante tutto): il FMI calcolava, infatti, che la riduzione di tasse finanziata da una riduzione di spesa pubblica avrebbe dato slancio all’economia perché le imprese, con più soldi a disposizione a seguito del taglio delle tasse, avrebbero investito. Come hanno dimostrato i fatti (il crollo del PIL) non è stato così: anzi, lo stesso capo-economista del FMI, Olivier Blanchard, ha dovuto ammettere l’errore.
“ Bisogna eliminare l’Art. 18 perché abbiamo milioni di disoccupati”?
Economisti come Emiliano Brancaccio o Guglielemo Forges Davanzati o Stefano Perri o Riccardo Realfonzo o Paolo Pini o Antonella Stirati avrebbero innanzitutto sottolineato l’evidente contraddizione tra quando detto, giustamente, 5 minuti prima da Giannini – che, però, non se l’è sentita di farlo notare al Ministro – e quanto detto poco dopo da Alfano: nonostante la Riforma Fornero del 2012 abbia sostanzialmente aiutato le aziende a licenziare più facilmente – per uno studio veloce sulle caratteristiche del nuovo Art. 18 si può leggere questa ottima sintesi di Guido Iodice su Next Quotidiano, che anticipa quanto si dirà più tardi – dal 2012 ad oggi l’Italia ha perso altri 500.000 posti di lavoro. L’affermazione di Alfano è tanto più imprecisa quanto più si pensi che i licenziamenti totali tra 2011 e 2012 sono stati quasi due milioni: in Italia è facilissimo licenziare per cause oggettive.
“Dobbiamo dare una mano agli imprenditori per semplificare e agevolare le assunzioni” ?
Si tratta di un’affermazione condivisibile ma non si capisce quale sia il nesso tra abolizione dell’Art. 18 e maggiore facilità nell’assumere, a meno che non si utilizzi l’abolizione dell’Art. 18 per aumentare la precarietà, terrorizzare i lavoratori e, quindi, abbassare i salari come successo in Grecia (dove i salari monetari sono crollati del 16% e quelli reali del 22% dall’inizio della crisi) e come sta succedendo ora in Spagna, dove il maggior numero di contratti part-time con riduzione media globale dei salari nominali pari al 7% viene sbandierata dalla nostra Confindustria come il grande successo delle politiche di lavoro flessibili. Se si sostituisce un contratto full-time con due contratti part-time si “aggiustano” le statistiche sul lavoro, ma la povertà perdura e i valori degli immobili continuano a scendere – a tal proposito sarebbe il caso di ascoltare questi sette minuti di intervista radiofonica da parte di Francesca Fornario e Natascha Lusenti al Prof. Emiliano Brancaccio.
“ La legge 300/70 è superata ed è come se giocassimo la partita a tennis della competizione globale con le racchette da tennis di Borg?”
La normativa che regola i rapporti è stata modificata numerose volte dal 1970: la Riforma Fornero del 2012 ha modificato sostanzialmente proprio l’Art. 18 dopo che il Decreto Sacconi, attraverso l’Art.8, ha regalato alla contrattazione integrativa aziendale la possibilità di derogare in peggio al Contratto Collettivo Nazionale. Non si capisce poi perché un dispostivo di legge, per il solo fatto di essere datato, non sia valido. Dice ancora Brancaccio: «I fautori della riforma sostengono che occorre superare le rigidità e i dualismi del mercato del lavoro italiano per rilanciare l’economia e l’occupazione. Tuttavia i dati dell’OCSE mostrano una realtà ben diversa da quella che viene solitamente raccontata. Basti notare che tra il 1999 e il 2013 l’Italia ha già fatto registrare una delle più pesanti cadute degli indici di protezione dei lavoratori, addirittura tripla rispetto alla riduzione che si è registrata nello stesso periodo in Germania. Questo significa, per intenderci, che le riforme Biagi e Fornero hanno accresciuto la precarizzazione del lavoro molto più della famigerata riforma Hartz realizzata in Germania. Inoltre, oggi l’Italia si caratterizza per un livello generale di protezione dei lavoratori pressoché in linea con quello di molti paesi europei, come Germania e Belgio, e inferiore al livello generale di protezione dei lavoratori in Francia. Ed ancora, la protezione dei lavoratori a tempo indeterminato è già inferiore a quella che si registra in Germania. Riguardo poi al dualismo tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori temporanei, questo in Germania è oltre tre volte maggiore che in Italia. Infine, come è noto, per la stessa ammissione dell’attuale capo economista del FMI, vent’anni di ricerche empiriche hanno negato l’esistenza di una relazione tra maggiore precarietà del lavoro e minore disoccupazione[1]. Di fatto, l’unico effetto plausibile dei contratti precari è che essi riducono il potere rivendicativo dei lavoratori e quindi consentono di ridurre i salari. Ma l’idea che abbattendo i salari si esca dalla crisi è anch’essa smentita dai fatti». Cioè, secondo la stessa OCSE, che pure ci chiede le indispensabili riforme, il mercato del lavoro tedesco non è meno rigido del nostro ed è più “duale” del nostro, che, negli ultimi anni è stato decisamente “svecchiato” utilizzando i parametri di modernità considerati da Alfano. Quindi la Germania, al cui mercato del lavoro il Premier ha dichiarato di volersi riferire, è più “ingessata” dell’Italia.
“Le aziende italiane sono piccole perché gli imprenditori, intimoriti dalle rigidità che l’Art. 18 determina, preferiscono assumere fino a 14 dipendenti”.
I numeri dicono che questa è una sciocchezza. È sufficiente citare Keynesblog che, in un articolo del 2012 ha ricordato in merito gli studi del Prof. Giuseppe Marotta, ordinario di Economia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, dai quali si evince che l’Art. 18 non ha alcun impatto sulla scelta dimensionale delle aziende italiane.
Alla luce di queste riflessioni, ci si chiede: per quale motivo non far fare ai clienti (cioè ai politici ospiti nelle trasmissioni televisive) i conti con l’oste (cioè gli economisti non allineati alla vulgata popolare)?
[1] Per la dimostrazione scientifica della decorrelazione tra maggior flessibilità e minore disoccupazione si legga “Antiblanchard”, Franco Angeli 2012 – Brancaccio (Suppa per l’appendice statistica) pagg. 105-113 oppure il saggio del Prof. Riccardo Realfonzo su Economia e Politica o, ancora, l’intervista di Luca Sappino al Prof. Dal Monte, docente di diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano.