Dal Consiglio dei ministri di ieri non è trapelato più di quanto si sapesse già: il Presidente del Cosiglio Matteo Renzi ha deciso, per motivi tecnici, di fornire solo l’anteprima del Jobs Act con gli elementi salienti, indicando genericamene le coperture degli interventi a deficit di bilancio invariato. Niente si può dire fin quando non saranno pubblicati i numeri del Documento di Economia e Finananza, per mezzo del quale l’Italia, se vorrà rispettare l’impegno preso con l’Europa da Saccomanni – cioè pareggio dei saldi di bilancio per il 2015-, dovrà rendere atto alla Commissione Europea di quel 0,9% di PIL di sforamento di spesa rispetto alle previsioni, equivalenti a circa 15 Mld. di Euro. «La copertura di questi dieci miliardi [riduzioni IRPEF per dipendenti con redditi inferiori ai 15.000 Euro, n.d.r.] è totalmente con risparmi di spesa e altri interventi macroeconomici, ma senza aumento di tassazione, ha detto Renzi, mentre il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha affermato: «Nessun cittadino deve rimanere a casa. Tutti devono avere un’occupazione» e ha puntualizzato: «Vogliamo costruire un modello per il quale chi riceve dei sussidi dallo Stato possa aiutare in qualche modo la collettività». La riforma Fornero sarà messa in soffitta perché il nuovo Governo istituirà un contratto unico a tutele crescenti nei primi 36 mesi, con la possibilità di licenziare liberamente senza giusta causa. Vedremo. Soprattutto verificheremo quale sarà l’impatto di questo nuovo contratto non solo sul tasso di occupazione e di disoccupazione, ma sul livello medio dei salari e sulla quota salari su profitto, in continua decrescita da un ventennio almeno, come dimostra il Prof. Perri utilizzando i dati OCSE. Verificheremo anche se, come temiamo, la Nuova ASPI, sostitutiva della cassa integrazione in deroga, e la sostanziale modifica degli ammortizzatori sociali utilizzati in Italia, serviranno a istituzionalizzare la paghetta di Stato per far figurare come occupati la massa di disoccupati e scoraggiati presenti. Noi abbiamo ben scolpite nella mente le riforme Hartz che, in Gemania, hanno permesso alle aziende tedesche di assumere con mini-job da 400 Euro netti 8 milioni di persone che poi integrano il magro salario con le paghette di Stato, appunto, e aiuti per le spese di alloggio. Una recente inchiesta giornalistica della ARD ha inchiodato addirittura la Daimler: dopo aver abusato del lavoro interinale per ridurre il costo del lavoro, adesso è il turno dei contratti d’opera; con un salario inferiore ai 1.000 € netti mensili- e questi “fortunati” non sono neanche assunti con mini-job – i lavoratori alla catena di montaggio possono tirare avanti solo chiedendo un sussidio Hartz IV. Sembrano tanto aiuti statali legalizzati ed utilizzati per abbattere il costo del lavoro, moderare i salari e rendere così la Germania quel mostro di competitività che conosciamo. Un ottimo libro che racconta dall’interno lo sfruttamento del lavoro nella ricca Germania è Germania Anni Dieci, di Gunter Wallraff…..leggere per credere.
In Italia non possiamo dire niente, ancora, se non che si tratta di misure di rilancio dal lato dell’offerta, poiché, per ora, non si mette mano al deficit di bilancio per creare posti di lavoro – la spesa pubblica la stiamo tagliando, non la stiamo utilizzando…– ma si sceglie una via intermedia, dividendo a metà il taglio di cuneo fiscale: metà a favore aziende – finanziata dalla sacrosanta tassazione delle rendite (finalmente….ma vedremo come e quali rendite) -, metà a favore dei lavoratori, mettendo loro in tasca, secondo le dichiarazioni, circa ottanta euro mensili in media. Non sappiamo con quale criterio saranno differenziati i tagli di IRPEF con riferimento alle differenti condizioni oggettive di differenti nuclei familiari.
Una differenza tra criteri per ridurre le due quote di cuneo c’è: da una parte (le aziende) la riduzione di cuneo sembra garantita da coperture certe; dall’altra (i lavoratori) la riduzione di cuneo dovrebbe essere coperta da risparmi di spesa – la spesa pubblica improduttiva – che per definizione sono incerti fin quando non sono misurati e stanziati, e che il buon Cottarelli ritiene essere solo 3 miliardi per quest’anno. Se, come già auccesso anche con Alesina e Giavazzi – due economisti mainstream molto stimati dall’establishment – il tentativo si spending review non andrà a buon fine, niente paura: i tagli saranno lineari, come successo finora, quindi i servizi pubblici saranno ridotti o comunque depotenziati, ed il costo di chi dovrà curarsi o di chi vorrà garantirsi un’istruzione valida saranno a carico di chi potrà permetterseli. A quel punto, presumibilmente, saremo in grado di misurare il reddito disponibile, cioè fare un calcolo tra quanto avremo in più in busta paga e quanto ci costerà non avere più la stessa qualità e quantità di servizi pubblici. Ma sono ancora tutte supposizioni.
Vediamo ciò che è certo: i numeri del Decreto Lavoro del Governo Letta (governo del fare). Strutturato per assorbire la disoccupazione giovanile, il decreto è stato varato il 28 Giugno del 2013, Si è trattato di un Decreto pieno di effetti distorsivi a favore dei nuovi assunti, con i quali le aziende avrebbero potuto rimpiazzare i vecchi assunti percependo anche un incentivo, licenziato dal governo con l’urgenza di doversi assicurare la quota italiana di Youth Guarantee europea. Il decreto, a parte non poche droghe alla Legge Fornero si caratterizzava per l’esiguità delle risorse (800 milioni in 4 anni), utilizzabili per sgravi, pari al 33% della retribuzione lorda imponibile a fini previdenziali, a favore delle aziende che assumevano per 18 mesi se nuova assunzione o per 12 mesi se trasformazione da contratto a termine a contratto indeterminato e con un tetto massimo di 650 Euro per assunzione. Le aziende avrebbero potuto assumere solo giovani tra i 18 ed i 29 anni: a) disoccupati per almeno sei mesi; b) privi di titolo di studio eccedente la seconda media; c) soli con famigliari a carico. Sappiamo come è andata a finire: su 2,9 milioni di potenziali beneficiari, Letta annunciò che, in 4 anni, sarebbero stati assunte 200.000 persone – ma Boeri calcolò che, al massimo, sarebbe stato possibile assumerne 30.000 – mentre invece il tasso di disoccupazione è continuato a salire perché le aziende non assumono neanche se incentivate, quando valutano che non potranno vendere il prodotto perché non c’è domanda.
La proposta di Renzi è più corposa, sicuramente più strutturata e definitiva: garantisce alle aziende tagli strutturali di IRAP, nel contempo promette subito maggiori salari nominali ai più poveri (quelli che, presumibilmente, spenderanno i soldi), ma non maggiore reddito disponibile (cosa ben diversa soprattutto quando devi pargarti di tasca tua servizi essenziali). Per fare ciò Renzi propone un contratto unico che, nel tempo, porterà anche solo per semplice ricambio generazionale alla riduzione dei salari reali ed anche nominali – abbiamo misurato l’impatto sui salari della maggiore flessibilità ad ogni rinnovo di contratto di categoria -, confidando sul progressivo superamento della distinzione tra lavoratori protetti e non protetti, depotenziando la contrattazione nazionale ma promettendo la paghetta di Stato in cambio di lavoretti da definire. Bisognerebbe chiedere ai lavoratori irlandesi e spagnoli, che seguono da quache anno la cura della riduzione dei salari, se oggi stanno meglio o peggio. Bisognerebbe fare la stessa domanda agli 8 milioni di mini-job tedeschi, in continua crescita rispetto ai lavoratori con contratti tipici in Germania.