Nonostante tutto l’Italia è ancora oggi la seconda potenza industriale europea dopo la Germania; l’industria, che lo si voglia o no, è il motore dell’economia italiana perché il valore aggiunto di tutti i servizi deriva direttamente o indirettamente dal valore aggiunto prodotto dall’industria e gli economisti sanno bene ciò; il nostro paese, inoltre, è povero di materie prime e il loro costo di importazione deve essere sostenuto dal valore dell’esportazione dei prodotti fabbricati sul nostro territorio. E’ dunque indispensabile capire quali siano le possibilità di ristrutturazione e di rinnovamento del telaio produttivo nazionale: in sette anni di crisi l’Italia ha perso il 20% della sua capacità produttiva ma le imprese nazionali davano segno di cedimento già da prima.
Nel libro Cacciavite, Robot e Tablet, Gianfranco Viesti (Professore Ordinario di Economia Applicata all’Università di Bari) e Dario Di Vico (giornalista economico del Corriere della Sera), affrontano senza pregiudizi la traccia del tema che ogni governo di ciascun paese, pungolato con tempistiche diverse dalla gravità della crisi, sta riscrivendo: l’intervento pubblico in economia e la politica industriale. Alla luce dell’annunciato intervento pubblico in Ilva l’argomento è mai come ora attuale e Siderlandia.it ne discuterà a Taranto venerdì prossimo, 9 gennaio, con uno dei due autori, Gianfranco Viesti, e con Guglielmo Forges Davanzati (docente di Storia del pensiero economico all’Università del Salento).
‹‹L’espressione politica industriale [….] non si poteva nemmeno pronunciare in un dibattito o inserire in un articolo senza incorrere immediatamente nella sanzione da cartellino rosso››, segnalano gli autori; poi la crisi ‹‹è passata come un carro armato su queste riflessioni›› ed ogni paese – basti pensare agli USA – ha attinto a piene mani dai bilanci pubblici per sostenere la propria economia. Il governo italiano, buon ultimo tra i governi di tutti i paesi, ha cominciato a preoccuparsi del tema solo nel 2014, accumulando un colpevole ritardo nei confronti degli altri. Sebbene d’accordo nell’individuare la diagnosi dei mali economici dell’Italia, cioè il crollo della base industriale del paese e, quindi, di tutte le attività terziarie ad essa connesse, i due autori non concordano sulle modalità di intervento da esperire: qui presentiamo il pensiero del prof. Viesti.
Sulla base dell’evidenza di ciò che accade in altri paesi che, almeno nell’immaginario collettivo, dovrebbero avere una tradizione liberista ben più consolidata che in Italia, Gianfranco Viesti sostiene che il gap competitivo accumulato dalle nostre imprese rispetto alle omologhe imprese estere è talmente grande da non poter essere colmato esclusivamente attraverso le canoniche politiche di offerta di cui si sente spesso parlare (incentivi fiscali per le imprese, miglioramento del funzionamento della pubblica amministrazione, incentivi alla produzione e all’investimento dei privati): sono necessarie anche immediate robuste azioni pubbliche di intervento diretto a più livelli magari attraverso la Cassa Depositi e Prestiti e il rinnovato Fondo Strategico Italiano. Scrive Viesti: ‹‹una riflessione è in corso negli Stati Uniti, paese nel quale il governo federale determina i grandi sviluppi delle tecnologie informatiche ed elettroniche, mediche, aereonautiche che sono alla base del successo applicativo di Apple e della Boeing e che non ha esitato un attimo a pubblicizzare Chrysler e General Motors all’apice della crisi investendo 80 miliardi di dollari››. In materia di industria e politiche industriali sembra ‹‹assai più utile essere pragmatici, attenti ai fatti, alle diversità storiche e geografiche piuttosto che incaponirsi sul pregiudizio secondo cui “la situazione ottima è quella in cui c’è più mercato e meno Stato possibile” ››.
E i fatti sono, appunto, raccontati dal professore con una batteria di dati e riferimenti bibliografici che rafforzano la sua riflessione: è un fatto che l’esperienza dell’IRI, sia pure in un mercato protetto e con costi politici elevati, ha prodotto carrozzoni pubblici ma ha anche prodotto le autostrade, la siderurgia italiana e tante aziende altamente capitalizzate senza le quali il livello di ricchezza e reddito degli italiani non sarebbe stato quello che è stato. E’ un fatto altresì che le privatizzazioni degli anni Novanta abbiano regalato rendite di posizione ad imprenditori che hanno poi spolpato le aziende senza effettuare gli investimenti necessari a sostenere la redditività delle stesse (esistono casi simili anche all’estero: la fallimentare privatizzazione delle ferrovie britanniche, per esempio).
Il grave ritardo di tante aziende italiane rispetto alle concorrenti estere è ascrivibile ad alcuni fattori chiave:
1) la mancanza di una costante e tenace politica di investimenti in capitali “pazienti” (tecnologia, innovazione, formazione e studio) che esaltino le peculiarità indiscutibili di alcune aziende italiane (permettendo loro di creare grandi “catene internazionali di lavoro”, come è stato fatto in Germania ed in altri paesi). L’iphone, ad esempio, è ideato, commercializzato e pubblicizzato in USA, prodotto con componenti americani, cinesi, taiwanesi, giapponesi e assemblato con manodopera cinese; il più alto valore aggiunto dei servizi associati al prodotti resta negli States; le auto tedesche sbaragliano la concorrenza ed esportano in Cina perché mettono insieme ricerca ed investimenti in progettazione e componentistica (che restano in Germania) al costo basso della manodopera slovacca. ‹‹Se negli anni Settanta la forza dell’industria tedesca era legata all’importazione della manodopera dell’Europa meridionale, oggi è legata all’utilizzo della manodopera dell’Europa meridionale››, afferma Viesti. In Italia, invece, la Fiat è stata incentivata a trasferire il suo cuore produttivo e la ricerca e sviluppo negli States in cambio di soldi.
2 ) Il crollo della domanda interna dovuto alla crisi, che ha colpito anche aziende italiane sane ed innovative (non hanno avuto più liquidi per rinnovarsi proprio quando, in una profonda fase di trasformazione, ne avrebbero avuto più bisogno). Un dato su tutti: dal 2007 al 2011 gli elettrodomestici bianchi prodotti nel nostro paese – eravamo leader in questo settore – si sono ridotti da 26 a 17 milioni e l’evidenza empirica dimostra che, in media, anche le aziende italiane più vocate all’esportazione realizzano i 2/3 del proprio fatturato in Italia. Si tratta di dati catastrofici perché, in un paese in cui l’apparto industriale perde colpi, alla lunga perderanno colpi anche le poche aziende che riescono ancora a stare in piedi ed hanno saputo innovare: è una questione di sinergie.
3) La dimensione produttiva (la “scala”) conta. L’Italia è il paese dal gran numero di imprese di piccola dimensione che, in mercati ormai mondiali, faticano a tenere il passo con concorrenti più grossi. Fatte salve alcune positive eccezioni, ciò determina la morte di molte aziende italiane, dal momento che i più grandi concorrenti stranieri godono di migliori condizioni di accesso al credito (in Germania con tassi bassissimi) per finanziare investimenti privati in Ricerca & Sviluppo (che infatti in Germania sono molto più alti rispetto all’Italia). Si tratta di un processo virtuoso nel quale chi prova di più, magari anche sbagliando, produce di più ed impara di più, incrementando progressivamente il divario cognitivo e di esperienze con chi non ha innovato.
4) L’inadeguata formazione delle risorse umane in Italia. A differenza di ciò che comunemente si pensa e che ci viene raccontato, in Italia ci sono pochi laureati e, soprattutto, pochi managers con adeguata formazione. Certo la formazione sul campo – il tipico esempio è l’operaio specializzato che diventa imprenditore in particolari settori metalmeccanici – è fondamentale, ma non basta più: è necessaria la specializzazione delle funzioni – soprattutto a livello informatico, distributivo e tecnico – che può essere garantita in primis da adeguati studi, quindi dall’esperienza sul campo con l’implementazione di adeguate iniziative in ricerca ed innovazione.
A giudizio del prof. Viesti la politica industriale deve offrire un mix di stimoli per qualificare l’offerta (per esempio garantendo la collaborazione continuativa dei ricercatori universitari con le aziende anche attraverso contratti di lavoro stabili), ma anche e soprattutto investimenti diretti per colmare questi divari ormai insostenibili: ‹‹la riduzione del costo del lavoro aiuta, [ma] non è la condizione decisiva per competere in un quadro internazionale in cui vi sono paesi con salari pari ad un decimo o un ventesimo di quello italiano››. E anche la ‹‹Banca d’Italia ha escluso che il costo del lavoro possa essere la determinante della perdita di competitività rispetto agli altri paesi››. In quest’ottica, la flessibilità del lavoro – spesso indicata come toccasana di tutti i mali italiani – può essere controproducente, perché spesso è associata a scarsa qualificazione per il tipo di lavoro svolto (con basse retribuzioni): l’impegno del lavoratore innovatore e altamente specializzato matura i suoi frutti in tempi medio-lunghi, durante i quali il lavoratore deve poter sperimentare nell’ambito del mandato assegnatogli. L’innovazione è un investimento che solo in futuro darà guadagni maggiori dei costi sostenuti immediatamente. ‹‹Si può lavorare anche per razionalizzare e rafforzare la rete dell’offerta di servizi e trasferimento tecnologico. Il modello, irragiungibile, è quello degli Istituti Fraunhofer tedeschi, diffusi sul territorio ma a rete, con un bilancio di 1,8 miliardi di euro e 18 mila dipendenti››.
Colpisce, in particolare, il disaccordo dei due autori nella valutazione complessivamente diversa dell’esperienza IRI in Italia e nell’inquadramento dei motori di crescita e sviluppo dell’economia italiana: trainata dalle esportazioni del prodotto intermedio e finale, per Di Vico, basata soprattutto sul consolidamento globale della domanda (anche quella interna) per Gianfranco Viesti.
Nel libro resta invece sotto traccia la questione “lavoro”, inquadrata nel senso di “buon lavoro”. Non si tratta certamente di un aspetto centrale nell’ambito del tema sviluppato, anche se la crisi industriale italiana – come tutte le crisi – ha come risultato ultimo la disoccupazione di lungo periodo. In quest’ottica lascia perplessi l’individuazione di uno dei campioni nazionali di imprenditoria italiana da parte di Di Vico in Eataly di Oscar Farinetti, l’imprenditore certamente molto attento alla diffusione capillare dei prodotti enogastronomici di qualità ma meno attento alla qualità e alla retribuzione dei rapporti di lavoro dei suoi dipendenti.
In conclusione, Cacciavite, robot e tablet, e in particolare il contributo di Viesti, rappresenta un’occasione per riflettere sulle urgenze che attendono la politica economica su scala nazionale, e non solo. Si prenda il caso Taranto: un eventuale intervento pubblico per salvare (e, si spera, risanare) ILVA non può ritenersi sarà sufficiente a dare nuovo impulso a un territorio che, come tutte le aree periferiche del paese, evidenzia una situazione socio-economica catastrofica. Lo stesso governo sembra esserne consapevole, al punto da aver inserito nel decreto sul commissariamento dell’azienda un progetto di “contratto istituzionale di sviluppo” per l’area jonica. Tale strumento potrebbe rappresentare un’opportunità reale per il nostro territorio – e, in prospettiva, un esempio per le altre aree depresse del paese – a patto che si traggano alcune lezioni fondamentali dal passato. I poteri centrali devono imprimere un impulso deciso al tessuto produttivo locale (in termini di risorse e di aggiornamento tecnologico e commerciale), senza tuttavia assumere un atteggiamento paternalistico; ma, soprattutto, l’intervento non deve cadere ostaggio della miriade di piccoli interessi locali, che andrebbero a disperderlo per mille rivoli alimentando nicchie di rendita e parassitismi di ogni tipo. La sfida è ardua, e presuppone uno sforzo progettuale non ordinario: il contributo offerto da Viesti e Di Vico offre strumenti imprescindibili a chi voglia affrontarlo seriamente.