Quando Renzi denuncia il “regime di apartheid” in cui versano i lavoratori precari, prospettando il livellamento verso il basso delle tutele per l’intero mondo del lavoro, sa di solleticare “la pancia” di quegli stessi soggetti. Le politiche del lavoro realizzate negli ultimi vent’anni infatti non hanno semplicemente creato una segmentazione netta fra “garantiti” e “atipici”, ma soprattutto hanno alimentato un’accesa microconflittualità fra componenti di quei settori. Ora, a quelli che hanno subito l’indifferenza (quando non l’arroganza) di chi era un gradino sopra, l’idea che anche questi possano sprofondare nello stesso inferno di incertezza in cui essi si trovano da tempo non dispiace affatto. È il dispositivo di “guerra fra poveri” che ha mosso le società “avanzate” negli ultimi decenni, facendo leva sui peggiori istinti che albergano nell’essere umano. Il punto è che spesso i sindacati (e la CGIL non fa eccezione), nel tentativo di adattarsi al nuovo quadro di rapporti di forza, hanno assecondato questa dinamica perversa con atteggiamenti corporativi che non potevano non risultare odiosi agli occhi di chi si trovava privo di tutele. Ora Renzi li prende in contropiede: sollecita una sorta di revanche dei “senza diritti”, trasformando in capri espiatori i “privilegiati” e facendo passare CGIL e soci come i responsabili della condizione miserevole in cui versano centinaia di migliaia di persone. Un colpo di prestigio da manuale, che occulta le reali responsabilità politiche sulla situazione presente (incluse quelle del PD e dei partiti che lo hanno costituito) e intensifica il cortocircuito in atto nel mondo del lavoro. A vantaggio, naturalmente, di quei settori che l’attuale governo rappresenta, e che neanche di striscio vengono chiamati in causa dai media e dai partiti di maggioranza quando si parla della situazione economica del paese: ceti imprenditoriali parassitari e inetti, titolari di rendite che nessuno mai ha osato scalfire, grandi evasori per i quali Equitalia è poco più fastidiosa del ronzio di una mosca.
Bene quindi i toni e i propositi di Susanna Camusso, ma a fronte della sfida lanciata dall’esecutivo oggi serve decisamente una marcia in più. Se è vero che “Renzi è come Thatcher”, al segretario del più grande sindacato italiano non dovrebbe sfuggire che la “lady di ferro” riuscì a sconfiggere quello che all’epoca era forse il fronte sindacale più forte d’Europa. Se oggi la CGIL vuole davvero che il mondo del lavoro abbia qualche chance di vittoria (o, più realisticamente, di tenuta) nei confronti di un’offensiva che non ha precedenti nella storia del nostro Paese (per ampiezza e varietà delle forze che la stanno sferrando, oltre che per radicalità degli obiettivi) deve con urgenza stabilire un rapporto con chi ormai costituisce la maggioranza della gente che lavora. Mettersi in questa direzione di marcia significherebbe modificare profondamente modi e condizioni di esistenza del sindacato. Questo non può più essere una burocrazia che si autoalimenta, selezionando i propri quadri sulla base di fedeltà politiche (quando non, più prosaicamente, di rapporti clientelari), spesso senza alcuna relazione con i contesti di lavoro e con chi vi opera; non può più legittimare le disparità esistenti all’interno del mondo del lavoro, relegando le istanze dei precari all’interno di contenitori organizzativi che sembrano svolgere una funzione più ornamentale che realmente sindacale; non può davvero più essere condizionato in maniera decisiva dai pensionati – in realtà un modo per perpetuare le carriere dei gruppi dirigenti, consolidando così blocchi di potere granitici.
Certo, fare questo (e tanto altro: una vera e propria “Riforma” del sindacato) in una fase di crisi come quella che stiamo attraversando, in cui l’istinto del “si salvi chi può” alimenta pulsioni corporative di ogni tipo, è impresa ai limiti dell’impossibile. Forse sarebbe stato bene pensarci prima. Forse la credibilità del sindacato è ormai definitivamente compromessa, e certi meccanismi si sono completamente radicati nelle relazioni fra lavoratori. Forse però in qualche momento si dovrà pur cominciare, se non per vincere oggi quanto meno perché sopravviva la funzione fondamentale del sindacato, oggi minacciata fino alle estreme conseguenze. Quell’idea di solidarietà fra pari nella lotta che qualcuno riassunse nel motto “uniti siamo tutto, divisi siam canaglia”. Se non è questo il momento, il rischio è che non lo sia mai più.