Lo scorso martedì sera è toccato a Matteo Orfini, presidente del PD, esporre nel salotto di Ballarò le taumaturgiche virtù del governo Renzi in materia di lavoro; dal confronto tra Orfini con il Segretario CGIL Susanna Camusso ed il leader di Sel Nichi Vendola è scaturito un serrato dibattito su un dato statistico appena pubblicato da Istat: l’incremento di 100.000 posti di lavoro in Italia registrato a dicembre 2014 rispetto al mese precedente. Da un parte, Orfini ha parlato di primi segnali di successo delle politiche di governo; dall’altra, Camusso e Vendola hanno accusato il presidente del PD di fare propaganda. Come stanno realmente le cose?
Ne abbiamo parlato con Nadia Garbellini, ricercatrice in Economia presso l’Università di Bergamo, già autrice di un chiarimento in merito.
Non riusciamo a capire per quale motivo Orfini esaltasse il dato oggettivo mentre Camusso e Vendola parlavano di “propaganda governativa”: come stanno le cose?
Il dato statistico è oggettivamente vero – si tratta di 92.703 posti di lavoro in più rispetto a novembre 2014 – ma vanno fatte alcune precisazioni che lo ridimensionano e lo qualificano. Innanzitutto, è un dato campionario destagionalizzato (cioè ottenuto da un campione statistico e depurato dalla componente stagionale). Osservando i dati grezzi, i nuovi posti di lavoro su base mensile sono anche di più (circa 142.000); a novembre tuttavia ne sono scomparsi oltre 349.000 rispetto ad ottobre, con un saldo di oltre 207.000 posti di lavoro in meno. Il tasso di disoccupazione scende a 12,12% (contro il 14.44% di novembre 2014 e il 12.30 di dicembre 2013), ma c’è un contraltare: sempre osservando i dati grezzi, il tasso di inattività è aumentato di 1.44 punti percentuali su base mensile (dal 34.95% al 36.39%).
E cos’è il tasso di inattività?
È la percentuale delle persone in età da lavoro che non sono attivamente in cerca di un impiego: se sei un lavoratore che non cerca più lavoro perché convinto di non trovarlo (scoraggiato) esci dalla platea della “forza lavoro” che, nel calcolo del tasso di disoccupazione, sta al denominatore di un rapporto dove le persone in cerca di lavoro stanno al numeratore. Insomma, se gli inattivi aumentano il tasso di disoccupazione può ridursi anche se il numero di disoccupati non diminuisce.
Però il numero di posti di lavoro è aumentato a dicembre. Che cosa intende Istat per “lavoratori”?
Come ho già spiegato altrove, per Istat “occupati” sono anche coloro che nella settimana di riferimento abbiano svolto, alternativamente: (i) “almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura”; (ii) “almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente”. Quindi se sei figlio di un barista e fai caffè al banco per due ore al giorno senza ricevere stipendio da tuo padre sei ufficialmente occupato, per esempio. Oppure, se sei un giovane volontario che “lavora” gratis per Expo.
Esiste in Italia un modo per qualificare il mondo del lavoro, cioè per cercare di capire, al di là dei numeri, la natura e la durata del lavoro italiano?
C’è: le statistiche di contabilità nazionale ci forniscono i dati sulle ULA, cioè “la quantità di lavoro prestato nell’anno da un occupato a tempo pieno, oppure la quantità di lavoro equivalente prestata da lavoratori a tempo parziale o da lavoratori che svolgono un doppio lavoro”. Te lo spiego nel modo più semplice che posso. I conti nazionali misurano la quantità di lavoro in un determinato arco di tempo utilizzando tre unità di misura alternative: le ore lavorate, il numero di posti di lavoro, e le ULA. Queste ultime sono calcolate a partire dal numero di ore lavorate come il numero di posti di lavoro che si avrebbero se tutti i lavoratori fossero a tempo pieno (e invece sappiamo che molti sono a part time ed alcuni hanno il doppio lavoro). Esempio pratico: ammettiamo che in Italia esistano 3 lavoratori, uno a tempo pieno (otto ore) e due a part time (4 ore ciascuno); ebbene, gli occupati sono tre ma i lavoratori equivalenti sono due (uno da otto ore, e un altro da otto ore frutto delle somma di due lavoratori da 4). Il loro rapporto è sempre maggiore di 1 ed è 1,5 in questo caso (3 diviso 2): ciò succede perché i part-time e i lavoratori con lavoretti da poche ore sono normalmente molti di più dei lavoratori con doppio lavoro Se dividiamo tutti i posti di lavoro di ogni trimestre per i corrispondenti lavoratori equivalenti a partire dal 1992 fino a fine 2014 otteniamo il grafico sottostante.
E cosa ci dice questo grafico?
Il grafico ci dice due cose importanti e definitive: 1) dal momento che la linea ha una tendenza crescente, il rapporto tra lavoratori e lavoratori equivalenti tende a salire e questo può succedere solo se il numero di lavoratori part time, a tempo determinato e a “ore” aumenta sul totale degli occupati; quindi la prima informazione è che la precarietà e la scarsa durata del lavoro in Italia aumentano con costanza ancora prima dell’applicazione del Jobs Act, cioè dal 1992; 2) si può osservare una crescente variabilità dei dati: soprattutto a partire da fine 2008 il grafico sale e scende con maggiore veemenza rispetto agli anni precedenti; ciò significa che la politiche di flessibilizzazione dei governi passati e dell’attuale confermano l’aumento della facilità di licenziamento ed assunzione e, di conseguenza, la qualità del lavoro creato e le forti escursioni in più o in meno del numero di occupati da un mese all’altro. In breve, io posso anche risultare “occupata” secondo le definizioni statistiche vigenti, ma se non sono pagata o sottopagata, se lavoro per due ore al giorno e se sono costantemente assunta e licenziata, che razza di lavoro è? È solo un lavoro che “aggiusta” le statistiche sbandierate dal governo.