Sostanzialmente invisibili fino al 2006, quando l’allora Ministro del Lavoro, Cesare Damiano, stabilizzò 26.000 lavoratori inbound (coloro, cioè, che ricevono le telefonate da clienti di grandi società industriali e di servizi), trasformandoli da co-co-co in dipendenti a tempo indeterminato, i lavoratori dei call center italiani sono tantissimi. Un recentissimo studio di settore dell’Istat attesta che «nel 2011 nel settore dei call center lavoravano oltre 80 mila individui; circa 51 mila di questi rappresentano gli addetti alle imprese (indipendenti e dipendenti “interni” all’impresa); quasi 31 mila sono invece lavoratori esterni». Sono quasi tutti inquadrati come impiegati e «il costo del lavoro per dipendente (lavoratori interni) sostenuto dai datori di lavoro è leggermente inferiore a quello del comparto di riferimento (circa 23.700 euro per dipendente e 24.200 rispettivamente) e molto più basso rispetto al costo medio del lavoro per il totale dei settori dell’industria e dei servizi di mercato (quasi 35 mila)»[1]; l’età media dei lavoratori è bassa e il 70% della forza lavoro è di sesso femminile.
Teleperformance Accenture Outsorcing, Almaviva, Infocontact, A4Servizi sono i titoli di quella che dovrebbe essere definita una “crisi di settore” ma che, invece, almeno scorrendo rapidamente i bilanci di Teleperformance, è una storia di crescente successo aziendale da una parte – gli utili societari sono in crescita – e di una costante contrazione di salari e contributi previdenziali dall’altra, cioè dalla parte dei lavoratori. Il fatturato di queste aziende sale perché le strategie operative e di marketing aziendale non possono fare a meno di un capillare servizio al cliente attraverso call center. A Taranto Teleperformance offre lavoro ad almeno 2000 persone, la maggior parte delle quali donne che hanno pensato di poter pianificare una vita con le entrate di un lavoro certamente stressante, ma sicuro[2]. Dal 2008 sono state registrate 550 nascite tra le dipendenti; senza bambini non esiste futuro per una collettività. Ma perché, con frequenza sempre più ravvicinata, esplode in continuazione il “bubbone call center” in Italia? Ne abbiamo parlato con Andrea Lumino, segretario provinciale della Slc Cgil di Taranto.
Qualche giorno fa la SLC CGIL ha indetto una conferenza stampa per focalizzare l’interesse dell’opinione pubblica sull’annosa situazione di Teleperformance Taranto, la seconda realtà lavorativa dopo ILVA per fatturato e numero di dipendenti nel nostro territorio. Ci spieghi cosa succede nel settore e cosa accadrà a breve?
Il lavoro nel settore telecomunicazioni è regolato da un contratto collettivo nazionale: si tratta della cornice legislativa generale che stabilisce il salario orario, gli obblighi ed i diritti del datore di lavoro e dei lavoratori a livello nazionale, da Canicattì a Bolzano; definire il campo e le regole del gioco in questo ambito è importantissimo perché si tratta di un settore “labour intensive”, dove il costo del lavoro rappresenta l’80% dei costi. Una parte dei costi è stata da sempre finanziata dallo Stato in virtù del Decreto 407/90 per le aziende che assumevano con contratto a tempo indeterminato, un’altra grande parte dei costi è stata sostenuta con finanziamenti ad hoc grazie alla Circolare Damiano del 2006 che ha certificato lo status di lavoratori a tempo indeterminato (e quindi l’estensione del CCNL) per migliaia di persone che lavoravano da co-co-co, ma che co-co-co non erano. Questi provvedimenti normativi, alla fine, hanno comportato un utilizzo distorto da parte delle aziende dei finanziamenti pubblici poiché sono stati utilizzati come strumento di riduzione del costo del lavoro, favorendo il dumping. Periodicamente le multinazionali del settore tornano a battere cassa quando gli incentivi finiscono e minacciano delocalizzazioni, quindi licenziamenti; puntualmente ciò si è verificato per Tp quando ha minacciato il licenziamento di 800 persone tra le due sedi romane (una avrebbe dovuto chiudere) e quella di Taranto: per questo motivo abbiano siglato anche un Accordo Aziendale il 13 Gennaio 2013 che, al di là di importanti nostre concessioni in tema di organizzazione del lavoro e orari, ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso l’utilizzo di uno strumento consentito dalla legge. Dato che l’azienda aveva dichiarato tre procedure di mobilità abbiamo applicato l’Art. 4 della Legge 223/91 sui licenziamenti collettivi, chiedendo ai lavoratori di retrocedere temporaneamente di livello (demansionamento), abbattendo del 12% il costo del lavoro attraverso la contemporanea introduzione del salario di produttività (tassato al 10%) sulla base di un terzo dell’orario di lavoro complessivo. Alla fine i lavoratori ci hanno guadagnato, non solo in termini di tenuta occupazionale, ma anche in termini di reddito, dato che questa vertenza nasce nel 2010 e si caratterizza per un abbondante utilizzo di cassa integrazione che ha falcidiato le buste paga per troppo tempo.
E qual è il problema, allora?
I call center sono aziende di servizi i cui costi fissi sono niente rispetto al costo del lavoro: se una multinazionale, in assenza di incentivi e sconti, può delocalizzare all’estero da un giorno all’altro beneficiando di un costo di lavoro molto più basso – gli albanesi e i romeni spesso parlano un ottimo italiano, n.d.r – prima o poi lo farà se non ci sono leggi che lo impediscano. Ma ti dirò di più: in questa giungla deregolamentata esistono sottoscala adibiti a call center abusivi anche in Puglia, senza bisogno di spostarsi all’estero. In ogni caso l’Accordo Aziendale aveva durata biennale: il biennio sta scadendo, il demansionamento volontario non può più durare perché deve trattarsi di un rimedio eccezionale dunque a tempo, quindi TP si ritroverà a breve nelle stesse condizioni di due anni fa.
Perché avete siglato questo accordo, allora?
Lo Stato italiano avrebbe dovuto recepire la direttiva Europea 2001/23/CE la quale sancisce che gli appalti possono essere assegnati solo nel rispetto del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro; la stessa direttiva garantisce la tenuta occupazionale anche in caso di cambio di appalto. Durante questi due anni il Governo non ha recepito questa direttiva per noi fondamentale e, da Luglio 2015, l’azienda – che ha preso commesse sulla base di un costo di lavoro ridotto – dovrà inquadrare i colleghi secondo i dettami previsti dal Contratto Nazionale e lamenterà le stesse identiche problematiche di costo antecedenti all’Accordo non ripetibile del 2013. In Italia Tp sarà fuori mercato, insomma, e perderà le commesse.
Mi spieghi come funziona l’aggiudicazione degli appalti delle commesse in Italia e chi fa concorrenza a Teleperformance?
I grandi committenti pubblici e privati commissionano appalti al massimo ribasso: in pratica i call center si aggiudicano gare di appalto chiedendo meno soldi per la commessa offerta dal committente; tutto ciò sarebbe normale, ma se esiste un vuoto normativo, come in Italia, è possibile che call center pirata vincano commesse sfruttando il vantaggio competitivo garantito dall’utilizzo di lavoratori sottopagati e trattati come schiavi in sottoscala bui lontani da sguardi indiscreti in violazione del CCNL. In mancanza del recepimento della direttiva di cui sopra arriviamo all’assurdo che i contratti collettivi nazionali sono bypassati da commesse al massimo ribasso offerte da Poste Italiane – una commessa del 2008 fu sospesa dall’anti-trust per eccesso di ribasso – o dal Comune di Roma. Insomma si arriva al paradosso che il Governo incentiva multinazionali e call center abusivi a scatenare un barbaro dumping salariale tra lavoratori con CCNL e lavoratori senza; e lo fa in due modi: non recependo la famosa direttiva e attraverso commesse di Stato. Il costo del lavoro ed il costo della sicurezza andrebbero scorporati dall’aggiudicazione dell’appalto. E, siccome non c’è limite al peggio, succede che aziende anche titolate aprano al Sud sfruttando gli incentivi triennali della legge 407/90, si creino un portafoglio clienti e poi, quando i contributi finiscono, chiudano per aprire 50 metri a fianco con altro nome e stessi lavoratori a salario ridotto, nella completa mancanza di controlli. Nel frattempo lo Stato ha pagato con incentivi e detrazioni, poi con Cassa Integrazione e Mobilità. Ed è semplicemente indegno che la grande committenza sfrutti a proprio vantaggio questa situazione.
Chi sono i grandi committenti di Teleperformance?
Sono colossi a partecipazione statale del settore energetico, ma ogni grande call center ha i suoi grandi committenti pubblici e privati che operano con commesse al massimo ribasso, inclusi i Comuni di Roma e Milano. E’ assurdo: lo Stato dovrebbe intervenire e recepire la direttiva Europea per disboscare la giungla, ma è lo stesso Stato che non interviene e, anzi, è attore principale di questo film dell’orrore.
Hai esempi di schiavi da call center nei sottoscala?
Una grossa multinazionale di telecomunicazioni è monocommittente di un call center da sotto-scala proprio qui a Taranto; il titolare di questo call center pagava i lavoratori a progetto 2,50 euro all’ora se costoro riuscivano a chiudere un contratto ogni 14 ore telefonando a casa dei potenziali clienti. Per fornire un metro di paragone, un Accordo Sindacati-Confindustria dell’agosto 2013 stabiliva una retribuzione oraria superiore per i lavoratori outbound di settore a progetto. Morale della favola: se una multinazionale si serve di questi call center qui, figurarsi cosa fanno aziende medio-piccole.
Quanto si guadagna a Teleperformance?
La figura contrattuale più diffusa qui è il part-time a 33 ore che, in condizioni normali e senza accordo aziendale in essere, può arrivare a prendere 950 euro al mese. Con il nostro accordo abbiamo fatto concessioni che hanno ridotto il costo del lavoro e arriviamo a prendere 900 euro circa.
E prima dell’accordo come stavate messi da un punto di vista economico?
Abbiamo fatto tre anni di Cassa Integrazione e solidarietà che hanno avuto un impatto economico più pesante. Ad Ottobre 2011, dopo il terzo mese di buste paga a “zero euro” per alcuni lavoratori, occupammo i locali dell’azienda. E’chiaro che questo accordo aziendale non è stato a costo zero, ma d’altra parte a Gennaio 2013 la prospettiva ulteriore Cassa Integrazione per solo ulteriori 6 mesi al 50% dello stipendio.
In merito a questa vicenda che giudizio dai di Teleperformance?
Credo di aver sempre pungolato l’azienda quando ha sbagliato; oggettivamente in questo caso l’azienda, che è una grande multinazionale, deve bene o male attenersi alle regole nazionali, mentre i call center da sottoscala possono tagliare allegramente sul costo del lavoro. Mettiamola in questi termini: l’inerzia legislativa del Governo in materia fornisce a sua volta a queste grandi multinazionali l’alibi per minacciare licenziamenti.
[1] Indagine conoscitiva sui rapporti di lavoro presso i call center presenti sul territorio italiano, Istat
[2] Telefonisti, addetti ai call center, colf e venditori a distanza. Sono loro in cima alla classifica dei lavoratori più insoddisfatti del proprio impiego, stando a uno studio realizzato nel 2013 da Istat e Isfol.