Se Venezia muore di Salvatore Settis (Einaudi 2014) è un testo fondamentale per chiunque voglia comprendere le dinamiche che muovono, oggi, attorno ad argomenti come la città, il turismo, la cultura. Si parte, infatti, da Venezia come paradigma e chiave interpretativa di tutte le città italiane, quelle la cui veneranda storia ha lasciato segni tangibili sulla propria pelle. Si sceglie Venezia perché è affetta da un morbo che ne dilania il tessuto urbano e la vitalità: quella conversione cieca al turismo che la sta trasformando da città in Luna Park; una città che si svuota di abitanti per popolarsi di turisti e di seconde e terze case; una città che perde le proprie attività produttive a favore di alberghi e ristoranti. C’è, infatti, a Venezia il problema di una monocultura, quella del turismo, che sostanzialmente nega al veneziano il proprio diritto alla città. Come Venezia, la stessa sorte potrebbe toccare a qualunque città, d’arte o meno. La sempre chiara esposizione di Salvatore Settis, nel suo costruire connessioni e aprire sipari su punti di vista diversi da quelli con i quali siamo abituati, in questa società del denaro, a guardare le cose, ha portato chi scrive a fare una serie di considerazioni, partendo da determinati passi del libro, su quelle che sono alcune delle problematiche di una città come Taranto.
Gli spunti sono molteplici, dall’affondo sui margini delle città, sempre più spesso ignorati e che hanno portato alla crescita di “informi periferie che si allargano a macchia d’olio” – e pare di riconoscere, tra queste righe, le grigie periferie tarantine sviluppatesi sulla scia di un eccessivo ottimismo demografico e della speculazione edilizia – alla retorica del grattacielo su cui Settis fa una stupenda dissertazione di natura sociologica che si collega, tra l’altro, al monumentalismo arrogante – e non possono non venire in mente certe grottesche proposte di collocazione di “colossi” nelle piazze del borgo umbertino –, sino al complesso concetto di “città invisibile”, l’anima della città. Stimoli interessanti provengono, come accennato, dall’approfondimento del rapporto – malato – tra città e turismo, oggetto, quest’ultimo, di un pullulare di iniziative e tavole rotonde che recentemente sono diventate un must sulle rive dello Jonio. Settis pone l’idea del brand in questi termini:
La disneyficazione delle nostre città avanza ogni giorno, e con essa la tacita rimozione della loro varietà, diversità, identità; la riduzione della storia a brand […] Vi sono “specialisti” pronti a coniare in quattro e quattr’otto nuovi “marchi di fabbrica” per città millenarie: piombano in luoghi di cui non sanno nulla e inventano un logo, uno slogan, una strategia di “lancio”, che da città a città non cambia molto.
La cosa strana è che, per quanto riguarda Taranto – che non ha i mezzi per permettersi “Archistar” e cose del genere – le proposte ridicole vengono da chi vive nella città: la scelta del pezzo di storia da vendere (si è parlato di Sparta, ma in campagna elettorale si è sentito anche il brand “Magna Grecia”) o di una determinata caratteristica del territorio da mercanteggiare (il mare, ad esempio, è tornato di gran moda) stride incredibilmente con il concetto, ma soprattutto con le condizioni, della città storica che, al pari di Venezia, va spopolandosi ma, diversamente da Venezia, è lasciata al degrado più nero. Sembra che a Taranto il problema sia dunque quello di fare cassa, prima di salvare quel che resta della storia.
Il vorace presentismo che in nome di immediati guadagni devasta città e paesaggi è dunque da intendersi come una patologia sociale.
Patologia sociale, questa di cui parla Settis, dalla quale Taranto è affetta da tempi oramai incalcolabili, se persino i suoi figli non sono in grado di stabilire le priorità della propria terra. Si capisce bene come, di fronte a un’emigrazione di massa, soprattutto giovanile, il rilancio turistico non possa in alcun modo essere la soluzione. Non possiamo pensare che il futuro dei tarantini sia solo ed esclusivamente legato alla ristorazione o al settore alberghiero. Né si può accettare la vergognosa identificazione della cultura con il turismo. La strumentalizzazione, da parte dei paladini del turismo a tutti i costi, del patrimonio culturale, trasformato in uno tra gli elementi utili al marketing territoriale, ha di fatto spezzato, nel nome del lucro, il legame intimo e silenzioso, ma sempre vivo, tra il cittadino e le stratificazioni storiche materializzate nelle pietre e nella natura (nel caso di Taranto, nella Città Vecchia e nel mare), diventate qualcosa da vendere al miglior offerente, dimenticando che
quel patrimonio e quel paesaggio non sono dei turisti, sono dei cittadini. E lo sono (dice la Costituzione italiana) a titolo di sovranità, in quanto costitutivi di identità e storia e consustanziali al diritto di cittadinanza.
Parlare di turismo in una città nella quale crollano, assieme ai palazzi in Città Vecchia, le pensiline delle scuole – luoghi che dovrebbero essere i baluardi culturali e di formazione della cittadinanza – lascia sulle labbra un sorriso amaro, la constatazione del fraintendimento di un meccanismo che si pretende di far funzionare nella maniera esattamente opposta a quella naturale. L’auspicio, dunque, è che a Taranto si inizi a far qualcosa per migliorare le condizioni del cittadino prima di lanciarsi in improbabili trovate turistiche e di vendita del territorio; di pensare, prima che alle politiche di marketing territoriale, a quelle culturali, urbanistiche e sociali, strettamente connesse tra loro ma da sempre carenti in questa città. Perché, spiega Settis,
Una città di cittadini consapevoli di sé e della propria cultura specifica è più ospitale, più interessante, più lieta anche per i turisti; una città di servitori lo è assai meno.
A buon intenditor…
StecaS