“Lavoro, imprese, futuro: le priorità della città” (Confindustria Taranto, lettera a Renzi)
“L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima” (Margaret Thatcher, intervista al “The Sundays Times”, 1 maggio 1981)
“Cantavano Guccini e De Gregori, c’hanno fatto tutti fuori questi imprenditori” (Assalti frontali, Avere vent’anni – Profondo Rosso, 2008)
There is no alternative? Provare ad attribuire una paternità ad un discorso pubblico, pronunciato (anche) in riva allo Ionio, che prospetti, in alternativa alle difficoltà economiche, ambientali e sociali del presente, la necessità di favorire lo sviluppo delle piccole e medie imprese, sarebbe un esercizio ai limiti dell’impossibile: si tratta di un mantra inflazionato, onnipresente e pervasivo, dalla paternità diffusa e trasversale.
Il lessico tradizionale dell’impresa privata – le retoriche dell’efficienza, della produttività, del rapporto costi/benefici, l’impostazione manageriale, le start up, il marketing, il merchandising e così via – insieme alla produzione di pensiero e di progetti in tema di continuo superamento dei limiti che frenano lo sviluppo d’impresa, costituiscono i perni centrali intorno ai quali ruota gran parte del dibattito politico del capoluogo ionico, a partire da quello istituzionale e della rappresentanza, arrivando ad influenzare anche una parte del linguaggio di alcune esperienze di attivismo cittadino in tema di ambiente.
Non si tratta di una circostanza affatto neutra: la tutela dell’interesse delle imprese, assunto come criterio dominante dell’agire politico ed amministrativo, è un’opzione politica storicamente situata nella grande svolta degli anni Ottanta, con l’ascesa di Reagan e della Thatcher, il trionfo del neoliberismo, capace di determinare un vigoroso cambio complessivo di paradigma, altamente peggiorativo per il 99% di chi è escluso dai processi decisionali, pubblici e privati, e altamente migliorativo per l’1% delle élites.
Il problema, evidentemente, non è solo lessicale, ma investe direttamente le nostre prospettive di vita, presenti e future. La domanda delle domande, capace di togliere il sonno all’1% – “come superare i limiti (storici, burocratici, economici, ecc) che ostacolano lo sviluppo d’impresa?” – è divenuta anche il perno dell’interesse di una parte consistente di quelli che abitano la città di sotto e che, da questa evocata ricchezza a venire, resteranno inevitabilmente esclusi. L’interesse per i problemi della propria classe – “come possiamo lottare, oggi, per conquistare migliori condizioni di lavoro e di vita?” – è stato progressivamente sostituito da una partecipazione appassionata ai problemi del campo avverso – “come possiamo favorire la nascita e la crescita di nuove aziende?”
Siamo di fronte, quindi, ad una valorizzazione ideologica del modello d’impresa che, per altro, la feroce crisi economica (e ambientale) non ha affatto messo in discussione.
Anche a Taranto questo cambio di paradigma sembra lavorare con triste efficacia. In una città caratterizzata da percentuali di disoccupazione e precarietà devastanti, affogata da stratificati problemi ambientali e sanitari, con la quasi totalità delle donne e degli uomini perennemente esclusi dai flussi di ricchezza e benessere, le prospettive e i problemi del mondo dell’impresa e il suo lessico vengono assimilati e replicati, quasi negli stessi termini, per esempio sia da alcune esperienze e organizzazioni ambientaliste (con gli appelli che invocano – senza problematizzarlo – lo sviluppo di imprese turistiche, culturali, ecc), sia da chi – come Confindustria Taranto – scende in piazza proprio contro la presunta (ed indimostrata) “cultura del no” in tema di ambiente, che bloccherebbe lo sviluppo cittadino.
“Si sì disoccupato no trend
Meglio piccolo imprenditore
Con partitina iva e go wind
E mmanco ‘e ssorde pe ll’ascensore”
(99 Posse, Communtwist, La vita que vendrà)
Uno sviluppo che vada bene per tutti? Può la prospettiva di uno sviluppo futuro di Taranto rispondere, allo stesso tempo, ai bisogni e ai desideri dell’99%, di chi subisce le conseguenze delle crisi economiche e sociali, e dell’1% di chi si arricchisce? Evidentemente no, per assoluta divergenza degli interessi in gioco. Basti pensare a come proprio nelle economie che attraversano fasi di sviluppo – anche di tipo verde – il divario tra i pochissimi ricchi e le moltitudini in via di impoverimento è in perenne in crescita.
Perché mai, allora, notevoli percentuali di disoccupati, precari e lavoratori assumono, con convinzione, anche in una parte dell’attivismo ambientale, il punto di vista dell’impresa come criterio di lettura e di intervento nel mondo? Perché mai i poveri si preoccupano, in maniera emotivamente partecipata, dei problemi dei ricchi?
Lungi dall’essere soltanto un criterio di governo dell’economia e della politica, il punto di vista dell’impresa e del mercato, con l’incontrastato trionfo del neoliberismo, è finito per divenire progressivamente il minimo comune denominatore della relazioni umane, in una società modellata attraverso il modello aziendale. La norma della concorrenza è una potentissima macchina di governo delle condotte e delle pulsioni di chi sta in basso. Gli appelli a divenire imprenditore di se stessi, ad investire sulle proprie capacità, ad inventarsi una via d’uscita dalle miserie del presente, sono ormai ampiamente introiettati, assimilati, riprodotti. Questo fenomeno, per giunta, finisce evidentemente per impedire fenomeni di riconoscimento reciproco ed empatia tra tutti quelli che subiscono le conseguenze della precarietà ambientale e sociale.
Se il tema della Thatcher era quello cambiare il cuore e l’anima attraverso il neoliberismo, anche a queste latitudini sembra essersi, allo stato attuale, completamente realizzato.
“Ma l’evasione non è altro che una semplice fuga: lascia intatta la prigione. Ciò che ci occorre è una diserzione, una fuga che annienti al tempo stesso l’intera prigione.” (La comunità terribile, Tiqqun)