Sei a Roma e decidi di andare al cinema a vedere Blue Jasmine, incuriosito dalle recensioni eccellenti e dagli attestato di stima rivolti all’interprete Cate Blanchett (poi premiata pure con l’Oscar). O magari vuoi qualcosa di più spettacolare e ti indirizzi verso il secondo capitolo de Lo Hobbit, anche per apprezzare l’incredibile performance di Benedict Cumberbatch, lodatissimo come voce del drago Smaug. Se sei a Roma ragionamenti di questo tipo li puoi fare, perché ci sono le strutture che permettono di scegliere la versione che vuoi vedere: c’è quella in lingua originale sottotitolata e c’è quella doppiata. Se vivi a Taranto (o comunque “in provincia”) è un altro paio di maniche.
La risposta in questi casi è quasi automatica: ma perché preoccuparsi di vedere un film con i sottotitoli? Dopotutto abbiamo i migliori doppiatori del mondo, lodati da registi come Kubrick e Pasolini, che di certo sapevano di cosa stavano parlando. D’accordo, ma vediamola in un altro modo.
Ragioniamo per ipotesi e immaginiamo un paese, non meglio precisato, dove sia molto diffuso il doppiaggio. Aggiungiamo la possibilità che in questo luogo lontano si decida di affidare allo stesso doppiatore i tre migliori attori di una fortunata generazione del cinema italiano. Riuscite a immaginare, non so, Mastroianni, Tognazzi e Gassman con la stessa voce? Scoppierebbe sicuramente uno scandalo, magari ne parlerebbero persino i telegiornali nazionali, condannando la scarsa sensibilità di quel paese che non è stato in grado di capire la versatilità interpretativa di quei maestri, appiattendo tutto con un’unica voce.
Quel paese, però, esiste davvero, ed è proprio l’Italia: i tre attori sono Robert De Niro, Al Pacino e Dustin Hoffman, che da noi hanno avuto per anni la voce di Ferruccio Amendola (e siamo nel paese dove se usi un aggettivo di troppo contro Amendola vieni visto come uno che bestemmia in chiesa). Di esempi del genere se ne potrebbero naturalmente fare tanti altri, ma penso che sia chiaro il concetto. Il problema, dopotutto, non sta nel fatto di pretendere una recitazione eccellente, perché i nostri doppiatori da questo versante hanno effettivamente pochi rivali: prima si citava Cumberbatch e Lo Hobbit, e nell’edizione italiana abbiamo un Luca Ward che è riuscito a restituire molto bene la caratterizzazione del drago. Ma il punto è questo: è Luca Ward, non è Benedict Cumberbatch.
L’argomento doppiaggio, si sa, in rete provoca spesso feroci polemiche, fra accaniti sostenitori e implacabili detrattori. Alcuni dati sono inoppugnabili: il sistema resta concettualmente vecchio e ancorato a logiche superate, con poche voci che si alternano, società che impongono cast vocali abbastanza standardizzati, attori giovani rigorosamente con voce adolescenziale e una generale sensazione che, data la generale bravura dei doppiatori, l’obiettivo sia portare a casa il risultato perché tanto importa più ciò che viene detto che non come o chi lo dice. Luca Ward, per restare all’esempio, è sovrapponibile tanto a Cumberbatch quanto al Gladiatore Russell Crowe o all’agente 007 di Pierce Brosnan, o al Neo di Matrix.
Poi però arriva QUEL titolo, che spinge a porsi davvero il problema e a riconsiderare la questione. Il film è Lei (in originale Her), lo ha diretto Spike Jonze portandosi anche a casa un Oscar per la sceneggiatura, e ha fatto molto parlare di sé per l’eccellente performance di Scarlett Johansson. Che sullo schermo non appare mai: è infatti la voce del computer (o meglio dell’intelligenza artificiale) di cui il protagonista si innamora. Con questa performance, l’attrice americana si è portata a casa un Golden Globe e qualcuno ha anche protestato per la mancata nomination all’Oscar. Bene, ora date un’occhiata al trailer italiano. Non un ascolto, ma proprio un’occhiata, perché il dato lampante è che il nome di Scarlett Johannson non c’è. Cancellata dal film. Scelta logica, visto che se doppi un’attrice che compare solo con la voce, di fatto non la fai “esistere” nel film. Di qui la decisione di BIM, che cura la distribuzione nel nostro paese, di affiancare alla versione doppiata (dove il computer ha la voce di Micaela Ramazzotti) anche quella in lingua originale con sottotitoli in italiano. Che, ed è il motivo per cui ne scrivo qui, si è vista anche a Taranto, grazie alla lungimiranza del Cinema Bellarmino. E per una volta non ci si è sentiti da meno rispetto allo spettatore di Roma.
Il dato che ha fatto parlare di sé è l’alto numero delle copie sottotitolate, ben 65 in tutta Italia, record assoluto per una pratica finora riservata solo a sporadiche pellicole d’essai, dove il mancato doppiaggio è dovuto più che altro al timore di non recuperare i costi di un’edizione nella nostra lingua (si pensi al peraltro apprezzatissimo Lo sconosciuto del lago, di Alain Guiraudie). Poi magari vai a Parigi e ti trovi in versione sottotitolata i blockbuster estivi come L’uomo d’acciaio. E capisci che qualcosa effettivamente non va.
Il senso di questa riflessione è che proporre una pellicola con i sottotitoli non è (più) soltanto un vezzo da integralisti: i tempi sono cambiati e se anni fa il doppiaggio era indispensabile, dato l’alto tasso di analfabetismo nel Paese, di recente la pratica della sottotitolazione ha conosciuto una notorietà esponenziale anche e soprattutto grazie alla diffusione di film e serie tv in via amatoriale – i cosiddetti fansub, e qui sorvoliamo sulle effettive liceità di simili operazioni prendendo il dato per ciò che è: questi prodotti esistono e sono largamente fruiti. Il che ha messo molta gente di fronte ai problemi che affrontavo in apertura e alla considerazione che, ferma restando l’importanza di cosa si dice, nell’economia di un racconto audiovisivo è significativa anche la voce dell’attore, l’intonazione e il senso di generale “apertura sonora” garantito dalla presa diretta, soffocata dalla registrazione in studio del doppiaggio. Una voce può essere calda, pastosa, ruvida, aspra, ma è comunque unica per ogni volto attoriale e a volte molte performance che consideriamo magistrali, per il lavoro compiuto dagli interpreti sul loro corpo, si accompagnano anche a una certosina modifica del timbro.
Esiste insomma, una fruizione differente del cinema, che ora inizia a trovare spazio ed estimatori e apre il fronte distributivo a modalità di circuitazione inedite. E’ un discorso artistico, certo, ma anche economico e, perché no, civico, nella misura in cui ci chiama in causa in quanto cittadini di un mondo globale che ha già dimostrato di scegliere approcci diversi alla materia. Sarà vera gloria insomma? Il passaggio dovrebbe essere facilitato dai nuovi proiettori digitali che consentono di stivare i differenti file (quello doppiato e quello in lingua originale) in poco spazio, senza le complesse operazioni di montaggio e smontaggio delle pellicole. Intanto è bene che il problema sia stato sollevato e se il gesto del Cinema Bellarmino è un segnale, è di quelli buoni. Quello che manca adesso è la volontà di investire su un mercato nuovo, dove versione doppiata e sottotitolata possano coesistere. Non solo a Roma.