Gli economisti della Troika fanno finta di essere convinti che l’eclissi quasi completa dello Stato permetta, grazie alla progressiva riduzione delle tasse necessarie al funzionamento della macchina pubblica, la sostituzione di investimenti privati ad investimenti pubblici (ovviamente inutili in ottica liberista) e una maggiore propensione alla spesa di lavoratori meno oberati dalle tasse. Pur ammettendo di non conoscere le previsioni sballate di questi economisti e le evidenze empiriche illustrate nelle precedenti pubblicazioni (i fatti che sconfessano la teoria liberista), anche chi non ha studiato economia è capace di farsi due conti in tasca e capire cosa succederebbe al suo bilancio familiare se, in cambio di un’aliquota d’imposta al 20% del reddito (un livello irlandese o statunitense), dovesse pagarsi le spese sanitarie per intero, o non avesse ammortizzatori sociali in caso di bisogno. Qualcuno in Italia potrebbe obiettare:”se devo fare accertamenti, il Centro Unico Prenotazioni di una ASL mi mette in lista per una T.A.C tra 5 mesi. Intanto pago sempre più tasse”. E chi garantisce che qualche euro in più in busta paga per riduzione del cuneo fiscale renda migliori e più convenienti i servizi privati rispetto a quelli pubblici? Una risonanza magnetica costa allo Stato più o meno 300 Euro, una P.E.T. 1.000 Euro, analisi del sangue di routine 60-70 euro, per non parlare di farmaci antitumorali. Ci vuole poco a capire che, senza Stato, imprese sanitarie private e compagnie assicurative farebbero ciò che fanno negli Stati Uniti o ciò che già fanno, per esempio, le assicurazioni sulla R.C. auto in Italia : si accorderebbero e ritoccherebbero spesso i prezzi al rialzo per remunerare gli investimenti. E stiamo parlando di una sola voce di spesa: quella sanitaria. Si potrebbe quindi rispondere :”Non hai mai pensato che il peggioramento della qualità del servizio pubblico sia voluto e sia funzionale alla soddisfazione degli interessi di precise lobbies private?”. Intanto in Italia 9 milioni di persone non si curano più perché non possono permetterselo e la sanità pubblica, bene o male, c’è ancora. Tra poco un’eccellente sanità privata sarà roba da ricchi e una scadente sanità privata sarà garantita ai clienti mass dalle lobbies assicurative in cambio di cospicui premi assicurativi.
Ma cosa c’entra Electrolux in tutto ciò? Al netto di comprensibili considerazioni sugli sprechi statali, cerchiamo di collegare il dramma della disoccupazione (quindi della caduta dei salari) all’austerità.
Una settimana fa abbiamo scritto che ‹‹la capacità di restituzione dei debiti di uno Stato è misurato, in sede europea, dal rapporto debito/PIL che, trasferito alla sfera privata dell’individuo, è come se fosse il rapporto debiti personali su redditi. Ma la gestione di uno Stato non può essere paragonata a quella del singolo individuo – che taglia le spese quando è troppo indebitato – proprio perché, per definizione, il reddito dello Stato è costituito dalla somma di spesa pubblica, investimenti privati, consumo e esportazioni nette (esportazioni meno importazioni); la riduzione della spesa pubblica non riduce dello stesso importo il reddito o PIL, ma di un importo maggiore, per il semplice fatto che licenziare personale (magari anche svogliato o poco produttivo) o tagliare servizi sociali o ridurre gli stipendi vuol dire anche ridurre i consumi che, in economie di mercato di paesi sviluppati, costituiscono circa il 70% del PIL››. Abbiamo anche detto che l’incidenza della riduzione della spesa pubblica sulla riduzione di PIL è il famoso moltiplicatore keynesiano. Bene: fino a settembre del 2012 gli economisti liberisti negavano questo effetto spirale negativo sul PIL generato da una caduta delle spesa pubblica. Avevano erroneamente previsto un moltiplicatore – che alla fine è un numero – pari a 0,5 per paesi come Grecia, Portogallo, Italia, Irlanda e Spagna. Molto banalmente ciò significava che un taglio di spesa pubblica di 10 euro avrebbe ridotto il PIL in modo meno che proporzionale (diciamo 7 euro); visto che la spesa pubblica concorre a determinare il debito pubblico, con questo moltiplicatore il rapporto debito/PIL era destinato a calare anno per anno perché, nelle previsioni, il numeratore (debito pubblico) sarebbe calato più velocemente del denominatore del rapporto (PIL): giustificavano le politiche di austerità vendendoci la certezza che il rapporto debito/PIL – uno dei parametri imposti da Bruxelles – sarebbe diminuito. Peccato che gli stessi economisti abbiano successivamente ammesso almeno due volte di aver sbagliato – sulla base dei dati registrati dopo l’applicazione delle misure di austerità – : il moltiplicatore è 1,5. Già Keynes scriveva nel 1936 che fare politiche restrittive sul bilancio statale di un’economia in recessione significa una sola cosa: ridurre più che proporzionalmente il PIL e, in assenza di investimenti privati per mancanza di fiducia, uccidere i consumi privati interni, far aumentare il rapporto debito/PIL (come si sta puntualmente verificando ormai in tutti i paesi dell’area Euro che fanno austerità) perché il numeratore scende meno velocemente del denominatore; ma meno PIL significa meno reddito, quindi meno salari e meno spesa, quindi meno domanda di beni, quindi meno produzione di beni da parte delle aziende. Perché produrre lavatrici se poi la merce rimane invenduta in magazzino? Come ricorda Giorgio Barba Navaretti sul Sole 24 Ore del 29 Gennaio, un’azienda che riesce a vendere il suo prodotto, è incentivata ad investire in un paese (anche se il costo del lavoro è relativamente alto) se gli abitanti di quel paese hanno i soldi per acquistare quel prodotto. A causa dei vincoli di bilancio imposti dalla Troika (il rapporto debito/PIL deve scendere al 60% mentre invece continua a salire e la spesa pubblica non può superare il 3% del PIL), in due anni il reddito delle famiglie italiane è crollato del 7,3% (Supplemento al Bollettino Statistico Bankitalia, il PIL del 4,3% ed i consumi degli italiani sono ai minimi dal 1970 – anno di nascita del dato statistico).
Scrive Carlo Clericetti (la Repubblica del 28 gennaio): ‹‹l’Electrolux sta in Italia da trent’anni, da quando comprò la Zanussi nel 1984, e ha qui di gran lunga il maggior numero di addetti in Europa, segno che non si è trovata poi così male. E quanto al cuneo, recentemente l’azienda ha chiuso una fabbrica in Australia, dove il cuneo è poco più della metà che da noi (secondo l’Ocse, 27,6% contro il nostro 47,6). Si può ripetere ancora una volta che il nostro costo del lavoro (cuneo compreso) è relativamente basso rispetto ai paesi europei. E che gareggiare al ribasso con la Polonia risolverebbe poco, perché poi dovremmo vedercela magari con la Romania, e poi la Corea, e poi la Cina, e poi il Vietnam, e poi il Bangladesh››. Ma se si analizzano i bilanci di Electrolux, si scopre che la maggiore riduzione assoluta e relativa delle vendite della multinazionale ( -16,74%) è in Italia, il paese che, dopo la Grecia, ha fatto più austerità in Europa. Electrolux chiude in Italia perché non c’è domanda a causa dell’austerità imposta da Bruxelles. E, di questo passo, chiuderanno molte altre aziende proprio perché il rapporto debito/PIL continua a salire grazie agli errori, anche teorici, dei tecnocrati europei.