Questo breve resoconto si è fatto attendere, ma arriva dopo una necessaria riflessione sulle giornate romane del 6 e 7 maggio all’insegna dell’Emergenza Cultura. Perdonerete il tono un po’ “personale” del pezzo, ma non è possibile, per chi scrive, mantenere il distacco cronachistico nel racconto di una due giorni in cui l’emotività è andata di pari passo con la razionalità. Nella articolata piattaforma, alla quale hanno aderito moltissime tra associazioni, movimenti e partiti, ad essere, tra le altre cose, rivendicato è il ruolo del professionista della cultura, quello che oggi, sempre più, è lasciato all’ombra del volontariato da un lato, e alla mortificazione ad opera di un Governo sempre più succube delle politiche di mercato, imposte anche al patrimonio storico-artistico della Nazione, dall’altro.
Presso il Centro Congressi in Via Cavour, giorno 6, sono con Giovanni, collega storico dell’arte dell’Università del Salento, amico fidato e compagno di battaglie. Assistiamo a un lungo convegno – del quale rammenterò solo alcuni interventi, ma completamente reperibile qui – durante il quale si sono alternati accademici, funzionari, sindacalisti, precari e disoccupati della cultura, coloro che non sono riconosciuti come professionalità nonostante anni, a talvolta decenni, di formazione. L’argomento centrale è l’articolo 9, indagato da diversi punti di vista, comprese le ultime riforme ministeriali. Tomaso Montanari introduce, scalda un po’ i motori di una due giorni che si preannuncia intensa. Chi si aspettava retorica e piagnistei resta deluso. I risultati in forma numerica che emergono dai lavori, lunghi cinque ore, sono disarmanti: dall’età media dei dipendenti del Ministero (55 anni; illuminante il discorso di Salvatore Chiaramonte) alle unità di personale che ci vorrebbero per tenere a galla la nave che affonda (7000); dai chilometri di documentazione archivistica da salvaguardare (oltre 1500) a come basterebbero 10 milioni per farlo (ma 18 milioni si “investono” nell’Arena del Colosseo). Numeri molto diversi da quelli sbandierati dal Ministero, legati agli ingressi nei musei, agli incassi, al miliardo per la cultura proveniente dal Fondo di Sviluppo e Coesione, con il quale si sceglie però di finanziare quelli che sono stati individuati come i grandi siti e musei a discapito del patrimonio diffuso: bastano a spiegare la sproporzione dell’investimento i 30 milioni destinati al centro storico de L’Aquila contro i 40 per i Nuovi Uffizi (altrettanti vanno alla Grande Brera) e i 60 per il Nuovo Auditorium di Firenze. Appare chiaro come la propaganda non lasci spazio alla reale condizione del patrimonio e dei suoi operatori. Ma dal convegno è emerso anche quanto siano pretestuose certe posizioni in materia di esportazione dei beni (nell’intervento di Vittoria Maria Marini Clarelli) e quanto gratuito il livore nei confronti dei funzionari delle Soprintendenze (che potenza nelle parole di Rita Paris!); oltre ai pericoli, esposti da Vezio de Lucia, ai quali è esposto il paesaggio grazie allo Sblocca-Italia. Ancora, con uno zoom sulla scuola (Lucinia Speciale e Roberto Scognamiglio) e sulla cosiddetta Scuola del Patrimonio – totalmente snaturata rispetto a quelle che erano le finalità per le quali sarebbe dovuta nascere (contraddizioni messe in rilievo da Fulvio Cervini) – ci si è resi conto di come questa società, e in particolare le generazioni nate dagli anni Ottanta in poi, sembrino esser schiave di una formazione perenne che non fa approdare a nulla. Usciamo dal convegno un po’ turbati, timorosi per il nostro futuro ma sempre più convinti che essere in piazza l’indomani è un nostro dovere di cittadini e di studiosi.
Il 7 maggio è il giorno della manifestazione: il popolo dell’articolo 9 si ritrova dietro lo striscione che lo recita per intero. Fa caldo, Giovanni e io siamo a mezze maniche e il sole scotta un po’: nonostante la nostra condizione professionale, siamo percorsi da un fremito che ci restituisce adrenalina ed emozione. Ci sentiamo, stranamente, parte di qualcosa di grande, importante, qualcosa che non ha precedenti. Si parte da Piazza della Repubblica per arrivare a Piazza Barberini. Roma in primavera è quella che si ritrova nelle vedute settecentesche, con quella luce bianca e calda che non ha eguali. Un corteo avanza consapevole, colorato, desideroso di riscatto. Incontro un gruppo di tarantini a sostegno della Soprintendenza che l’ultima riforma ministeriale ha negato alla città dei due mari; ma anche studenti dell’Università della Calabria e del Salento (siamo un po’ gonfi d’orgoglio), docenti da tutta Italia, associazioni nazionali, come Italia Nostra, o legate a diversi territori, ognuno con la sua istanza, ognuno a dare voce al proprio patrimonio; ci sono lo spezzone di Sinistra Italiana, con Stefano Fassina ad appoggiare personalmente la protesta, e le bandiere di Possibile, qualche maglietta pentastellata; ci sono le guide turistiche abilitate di Roma e le tre sigle sindacali; Susanna Camusso incede discreta; e c’è la musica che dà il ritmo al corteo che si apre sulle note di “Vieni a ballare in Puglia”. Poi ci siamo noi, un po’ scossi, un po’ increduli, un po’ ubriachi di speranza. Qualche nube si addensa sulle nostre teste. Ad attenderci in piazza c’è la Fontana del Tritone di Bernini, un palco e qualche goccia di pioggia che si mischia a lacrime di rivalsa quando Paolo Maddalena tuona più forte del cielo «Staniamo il nostro nemico in nome dell’art. 52 […] perché difendere la patria dalla guerra economica è essenziale ed è un dovere inderogabile!»: i destinatari sono coloro che vogliono manomettere la Carta fondamentale dello Stato, perché, dice Maddalena, è a rischio il diritto al lavoro, diritto fondamentale del popolo sovrano, e con esso la patria. Gli interventi sono tanti: alcuni ricalcano quelli del giorno precedente, altri sono nuovi e portano ulteriore materiale da analizzare. Al centro di tutto, assieme all’art. 9 c’è il lavoro: non il volontariato, non gli incassi, non i supermanager dei Musei, non i “professoroni” come, spesso, vengono additati con sprezzo coloro che, forti della propria formazione, sono capaci di indicare la via, venendo poi trattati come Cassandre. In questo Stato vige l’incredibile moda per la quale gli intellettuali sono “sbagliati” a prescindere; se anziani è ancora peggio visto che si insegue, senza cognizione, qualcosa di nuovo che non è necessariamente qualcosa di giusto. Restiamo a sentire tutti gli interventi mentre la pioggia si fa copiosa: non abbiamo ombrelli, ma non ci muoviamo di lì. Abbiamo le mani arrossate di consenso. È una giornata che ha il sapore deciso della cesura storica: «Non era mai accaduto – afferma Montanari – che associazioni culturali e ambientaliste formassero un fronte compatto con le organizzazioni sindacali e con quelle dei precari, che questo fronte fosse promosso da studiosi e ricercatori, e che quindi si unissero partiti e movimenti tra loro diversi».
Non era mai accaduto, insomma, che negli operatori della cultura, a tutti i livelli, si manifestasse in questo modo una coscienza di classe. Sentirci parte della storia, ma soprattutto di questa storia, ci ha resi più consapevoli del nostro ruolo di storici dell’arte, nella vita prima ancora che in biblioteca: qualcosa in movimento, che non è ricerca fine a se stessa ma lavoro per la collettività. Ce lo siamo sempre detto, ma il battesimo del maggio romano ci ha rinsaldati in questo proposito.
«Inizia una lunga stagione di lotta», dichiara Montanari dal pulpito di Via Cavour. Di questa emergenza cultura, di questo percorso in fieri, dovremmo decidere di essere attori protagonisti. In ballo non c’è solo il futuro degli operatori della cultura, ma quello del patrimonio, bene comune inalienabile, almeno finché ci sarà qualcuno a lottare perché resti tale. Il futuro passa da qui.
StecaS