Il rosso è il colore della passione e della ribellione. Acceca e accende i bollori e i tumulti del corpo e della mente. Le labbra color porpora appiccicate al mozzicone di una sigaretta, le gote paonazze dall’emozione, le mani rosse della vergogna, il sangue gelido di un corpo senza vita. Tante scarpette rosse, tante narrazioni sommerse. Tragedie ormai divenute percentuali di una triste statistica, oggetto di becere speculazioni in un’epoca in cui il dolore fa scalpore, genera curiosità ed alcune volte è uno strumento efficace per avviare campagne di marketing e di promozione.
Numerose le manifestazioni e gli eventi organizzati per celebrare la giornata mondiale contro la violenza verso il genere femminile. Contributi di avvocati, criminologi, questori e corpo di polizia: una macchina sicuritaria finalizzata a respingere questo fenomeno – da alcuni definito come “una grande emergenza” -, proponendo come rimedio forme ed azioni repressive e restrittive, volte a confinare ancora di più la donna all’interno di un vicolo senza uscita. Affrontare la questione della violenza in modo collettivo e politico senza prima criticare le immagini e le parole con le quali essa viene argomentata risulta fuorviante. Considerare questi casi come semplici ”delitti passionali” o “delitti d’amore” port a sviare completamente l’attenzione da quella che è la reale entità della questione. Trattare la violenza di genere mostrandosi incapaci di avanzare un ragionamento che trascenda l’isolamento di singoli fatti e casi denota il terrificante degrado culturale in cui versa questo paese.
Suscita plauso e clamore il decreto contro il femminicidio, approvato qualche mese fa dal Parlamento, all’indomani della ratifica della Convenzione di Istanbul. Il testo normativo – rubricato “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”- è diviso in quattro parti. Una soltanto però focalizza la sua attenzione sulle possibili azioni preventive per contrastare l’incremento incontrollato delle forme di violenza verso le donne. Accanto all’inasprimento delle pene e all’introduzione del reato di flagranza per l’uomo colto a molestare una donna, vi è una serie di norme sicuritarie e coercitive volte a instaurare una “logica dell’emergenza”, che conduce inevitabilmente a considerare la questione alla stregua di qualsiasi altra forma di violenza; così la donna diviene oggetto “conteso” tra la forza del “carnefice” e quella securitaria e repressiva dello Stato.
La violenza viene quindi considerata come un problema di sicurezza e non di privazione della libertà. L’uomo che rispetta la donna è quello che gioisce per le sue libertà e le sue conquiste. L’esasperata protezione spesso confina in forme pericolose di reclusione e di isolamento. Occorrerebbe dar maggior spazio ai centri d’ascolto, agli sportelli d’assistenza, cercando di diffondere in particolar modo nelle scuole e nei centri di aggregazione una cultura in grado di riconoscere ed apprezzare la diversità.
Il discorso sull’alterità dell’Io coinvolge trasversalmente qualsiasi rapporto umano: la relazione tra i genitori e i propri figli, l’amicizia, i legami d’amore e anche il confronto tra i due sessi. Riconoscere la diversità e saperla cogliere e valorizzare potrebbe essere un passo in avanti verso una nuova politica di genere che sia in grado di elaborare nuove forme di comunicazione.
La scelta di identificare il 25 Novembre come giornata di “Sciopero delle donne” scandisce a chiare lettere l’impotenza con cui il genere femminile si relaziona a certe tematiche, riproponendo schemi e linguaggi di una cultura imperniata di machismo. Riconoscere una giornata di sciopero significa riconoscere indirettamente la propria “subalternità”. “Chi sono i datori di lavoro per cui si manifesta? – si interroga Alessandra Ghimenti, scrittrice ed autrice di interessanti video sull’immaginario dei “generi” nei bambini delle elementari – Se il lavoro in questione è quello di “cura”, ne sono assolutamente persuasa. Se è altro non oso immaginare cosa si intenda con lavoro: l’amore? L’accoglienza? La storia sessuale? Non capisco”.
Accogliere l’idea “brillante” di uno sciopero selvaggio comporta in sé la pratica possibilità di doversi confrontare con una controparte. Tale mentalità è del tutto inadeguata se si vuole affrontare la questione in tutte le sue forme e manifestazioni, visibili ed invisibili, intraprendendo un discorso volto a capovolgere o disintegrare completamente ruoli e stereotipi sociali ormai totalmente sedimentati.
I discorsi sull’amore e il rapporto di coppia ne sono fulcro centrale e predominante.
L’amore non è un “do ut des”; l’amore non è “assistenza” dell’altro; l’amore gioisce della e nella libertà, non è privazione o repressione. L’amore è ciò che è. Accade, punto e basta.