Da qualche settimana è stato eletto fra i membri non inglesi della prestigiosa Royal Economic Society, in quanto “economista di massima autorevolezza e in grado di fornire contributi rilevanti per la determinazione delle finalità istituzionali dell’Associazione”. Guglielmo Forges Davanzati, docente di Storia del pensiero economico dell’Università del Salento, crede poco ai messaggi rassicuranti delle autorità sull’economia del nostro paese, e del Mezzogiorno in particolare. “A livello italiano le stime più accreditate prevedono una crescita negativa nel 2013 (-2,8%) e un’andamento sostanzialmente piatto nel 2014, mentre al Sud è prevista una decrescita del PIL anche per il 2014 e per il 2015.”
E la causa di questo disastro meridionale qual è?
Per prima cosa, da almeno 4 anni il Sud riceve una quota di spesa pubblica molto inferiore rispetto a quella ricevuta dal Centro-Nord. Al netto dei luoghi comuni proprio Svimez ci dice, poi, che l’incidenza della tassazione fiscale è maggiore nel Sud rispetto al Nord, mentre l’evasione è minore. Quindi ciò che io ritengo essere la “retorica del capitale sociale” (presunta maggior delinquenza e propensione ad evadere al Sud) crolla anche sotto i soli colpi dei dati empirici Svimez.
Oltre questo?
Ci sono due elementi di carattere politico che penalizzano il Mezzogiorno:
a) In una economia di mercato deregolamentata i capitali tendono a concentrarsi in aree centrali dell’area di libero mercato, perché sfruttano maggiori economie di scala, minori costi di network e minori costi di trasporto. I capitali che possono delocalizzare in quelle aree lo fanno, producendo lì, investendo lì ed attirando forza lavoro; si tratta di forza lavoro giovane (tra i venti e i trent’anni), con maggiore propensione al consumo e maggiori competenze. E’ chiaro che in queste aree centrali si registra una crescita maggiore (proprio perché il personale impiegato è più scolarizzato e produttivo) e un maggior consumo interno che, ovviamente, traina la domanda. C’è quindi un trasferimento netto di crescita, produttività, reddito e conoscenza, il tutto a spese dei paesi del Sud Europa e del Mezzogiorno;
b) Le politiche europee di austerità colpiscono particolarmente le imprese del Sud, perché queste sono storicamente piccole e poco internazionalizzate, con mercati di sbocco essenzialmente interni e locali: aumentare la tassazione e ridurre la spesa pubblica – ciò che il Governo continua a fare per rispettare i vincoli europei – è il modo migliore per ridurre i mercati di sbocco, quindi i profitti di queste aziende. Si aggiunga a questo la riduzione del credito, che colpisce soprattutto le piccole aziende del Sud, e l’evoluzione demografica delle nostre aree – secondo Svimez tra 10 anni il Sud sarà prevalentemente popolato da over 60 – e se ne trarrà un quadro ancora più desolante.
C’è chi attribuisce le cattive performance dell’economia italiana e meridionale alla bassa produttività del lavoro…
E’ verissimo, la produttività italiana e del Sud cala da 10 anni. Ma bisogna capire perché. La produttività dipende dal capitale umano (conoscenze specifiche, competenze), da fattori motivazionali e, soprattutto, dall’accumulazione di capitale fisso (impianti, macchinari). Se nel sistema economico italiano il tasso di accumulazione si è ridotto nel 2012 e nel 2013 del 5% circa, vuol dire che le aziende disinvestono, ed è chiaro che la produttività del lavoro crolla. Bisogna sottolineare che gli italiani – dati OCSE – lavorano molto più della media europea, mentre la produttività crolla: il nostro paese (ed il Sud in particolare) è essenzialmente un paese ormai deindustrializzato, nel quale si ricominicia a parlare di ritorno al lavoro nei campi. Ci avviamo verso un futuro pre-industriale: stiamo tornando indietro.
Ma questo disastro dipende dal fatto che, in un mercato aperto, siamo meno bravi ad organizzarci o ci sono responsabilità politiche precise?
Direi che siamo soprattutto di fronte a scelte politiche. Si è scelto di aumentare vertiginosamente la pressione fiscale con contestuale drastica riduzione di spesa pubblica (nel Sud più che al Nord) per creare ampi avanzi primari, cioè risparmi statali, impiegati non tanto per pagare i famosi interessi sul nostro debito pubblico, ma per rimpinguare il Fondo Salva Stati. A livello europeo si è scelto, cioè, di destinare soldi alla Banca Centrale Europea (banca privata) per ricapitalizzare le banche non solo italiane ma, soprattutto, francesi e tedesche – quelle risultate meno solide da un punto di vista patrimoniale. I contribuenti del Sud Europa (quelli più poveri) hanno in pratica finanziato le banche in difficoltà del Nord Europa e questi soldi sono finiti in operazioni di speculazione finanziaria e non sono stati utilizzati per concedere credito alle imprese e famiglie. Possiamo affermare che si sta verificando una gigantesca redistribuzione dal reddito da lavoro alla rendita finanziaria, e chi ne fa le spese sono ovviamente i lavoratori.
Cosa si dovrebbe fare per correggere la rotta?
Innanzitutto non bisognerebbe fare altre riforme strutturali e deregolamentare ulteriormente il lavoro: la riforma Fornero permette di licenziare più facilmente in epoca di recessione e questo è assurdo. Poi, bisognerebbe allentare subito il vincolo del 3% del deficit su PIL, cioè l’azione più ragionevole in una fase depressiva come questa. Quindi lo Stato dovrebbe aumentare le spese in disavanzo di bilancio. Una volta che Stato spendesse l’economia si rimetterebbe in moto generando introiti fiscali maggiori.
Ma questo non farebbe esplodere il debito pubblico?
Il Giappone ha un rapporto debito/PIL del 240% – il nostro è del 132% – ed è un’economia in crescita senza inflazione. Ci viene raccontato che noi abbiamo un debito pubblico troppo alto rispetto ai vincoli decisi in Europa (60% del PIL). Ma nella teoria economica non esiste alcun criterio scientifico per quantificare il limite di sostenibilità del debito pubblico. Se la BCE potesse comprare liberamente titoli di debito dei paesi europei, come fanno le altre Banche Centrali, ci libereremmo anche dall’ossessione che il debito pubblico è un problema: in Giappone succede questo, come anche negli Stati Uniti, dove la Fed monetizza il debito in continuazione.
Sei per restare nell’euro con modifica dei vincoli europei (opzione Brancaccio) o per uscire dall’Euro (opzione Borghi e Bagnai)?
Io non concordo con Bagnai: il problema italiano è monetario fino ad un certo punto. Il vero problema italiano è industriale: usciamo dall’Euro per esportare cosa? E con quale “forza imprenditoriale”? Uscire dall’Euro comporterebbe un’immediata svalutazione della moneta (quindi le poche aziende rimaste potrebbero essere comprate a prezzo di saldo all’estero) e un’altrettanto immediata inflazione, riducendo i salari reali e la domanda interna. La posizione di Brancaccio mi convince di più, ma io aggiungerei una valutazione per altro non mia, ma del finanziere George Soros: o si rimane nell’Euro modificando i Trattati e praticando una politica fiscale comune o sarà la Germania a decidere di uscire dall’Euro. Da qualche anno la Germania, la cui crescita dipende dalle esportazioni, sta diversificando i mercati di sbocco dei suoi prodotti dall’Unione Europea (dove la domanda è calata proprio a causa della crisi dei paesi del Sud) ai paesi dell’Est Europa ed alla Cina: quando i costi per restare nell’Unione Europea – ricordo che la Germania è il primo contribuente dell’UE – saranno diventati più alti dei vantaggi (il valore delle esportazioni negli altri paesi dell’UE) probabilemte sarà proprio la Germania a voler uscire.