Probabilmente pensarono che fossi pazzo. E invece non inventavo niente, vedevo soltanto le cose nello stato in cui sarebbero diventate in seguito. Perciò, riportandole al loro giusto valore, potevo giudicarle meglio. Effettivamente, cosa sono questi stracci, questo ciarpame che salutiamo e di cui siamo tanto orgogliosi? E cosa sono queste consuetudini, questa civiltà che si fonda sulla piega dei pantaloni o sul fiore all’occhiello?
Nel 1945 Jaques Spitz, un autore francese forse troppo poco conosciuto, pubblicava il suo romanzo ‘L’occhio del Purgatorio’, scritto dunque in piena occupazione nazista della Francia.
Il protagonista Jean Poldonski conduce le sue giornate tra tentativi di pittura, irritanti visite della premurosa fidanzata e annoiate avventure erotiche con le sue modelle, alla continua ricerca dell’ispirazione artistica. Senza più speranza né vitalità si orienta verso il suicidio, fino al giorno in cui l’incontro con l’eccentrico scienziato Christian Dagerlöff rivoluziona la sua vita.
Questo ha compiuto una scoperta rivoluzionaria: un bacillo che produce negli uomini la facoltà di vedere il mondo in anticipo! Il pittore viene contagiato, e da quel momento inizia per lui una discesa verso una voragine percettiva in cui gli uomini vengono già visti cadaveri, i cani scheletri, il vino nel bicchiere già piscio, il cielo stellato un grande nulla. Una macabra allucinazione destinata a un drammatico e delirante epilogo: l’inevitabile progressione del tempo porterà l’artista verso l’inarrestabile paradosso di sopravvivere alla vista della sua stessa morte.
Non mi riusciva più di vedere le attenzioni che gli altri avevano per me, e dunque era un’altra parte di vita che mi sfuggiva. Nascosi la testa sulla sua spalla e, ritrovando il suo profumo, tenni gli occhi ben chiusi per accarezzarla con mani di cieco, e così mi assicurai che era lì davanti a me, tutt’intera e fresca. Lei mi disse, con un riso di gioia, che la primavera mi rendeva proprio tenero. Allora mi chinai, per guardare la primavera. Eravamo alla finestra dello studio. Al di là dell’autorimessa, sui rami dei platani erano spuntate certe foglioline gialle e secche, che mi ricordavano un ciuffo di gramigna in cima a una scopa.
– Non si vede che siamo ormai in primavera, a Parigi.
– E tutte quelle gemme che si aprono in tante foglioline tenere e lucide? – disse.
Non mi ero ancora reso conto che il verde della primavera poteva apparirmi soltanto con i colori dell’autunno.
Jean Poldonski non vede più il presente, bensì un presente invecchiato. E più avanza il romanzo e dunque la sua patologia, più guarderà avanti nel tempo le miserie e la natura passeggera delle cose e degli uomini. Come l’autore stesso ci spiega, Poldonski viaggia nella causalità, ovvero secondo quel principio filosofico per il quale nulla accade nel mondo senza che vi sia una causa determinata.
A questo punto risulta quasi scontato, se non naturale immedesimarsi nella condizione innaturale di Poldonski. La nostra incapacità di immaginare l’utopico ha delle cause ben precise che non vogliamo o non possiamo ribaltare? Il nostro calarci nel quotidiano con occhi disillusi che poggiano solo sguardi superficiali su un presente che invecchia sempre uguale, come se sapessimo sempre come va a finire, dimostra la sensazione di essere stati infettati. È sul tempo che si gioca la battaglia per il rovescio delle cose. ‘Riprendersi il futuro’ è un’affermazione vuota se non determiniamo noi l’immagine stessa a cui guardare in modo del tutto nuovo per non farci ingannare dai meccanismi del presente.
E qui mi vengono in mente alcuni esempi, tra i più importanti, a proposito solo di Taranto.
Quale immagine desideriamo? Qual è il nostro orizzonte utopico?
Liberare il porto e svilupparlo per far crescere le piccole e medie imprese con attività turistiche e commerciali, generando indotto e benessere diffuso?
Il brand ‘Taranto – La città Spartana’?
E se anche queste siano facce di un presente invecchiato?