L’Unione Europa nel luglio 2013 ha deciso di impegnare risorse pari a 50 miliari di euro – tratte dal Bilancio Pluriennale dell’Unione, dal Fondo Sociale Europeo della Commissione Europea e della Banca Europea degli Investimenti – per avviare il programma di “Youth Guarantee”, letteralmente “Garanzia Giovani”. La genesi di questa iniziativa mira all’auspicato rilancio dell’occupazione giovanile. Tuttavia si tratta di cifre modeste per rispondere ai circa 6 milioni di giovani disoccupati europei. A questi si aggiungono i 7,5 milioni di giovani che non sono né occupati e neppure in formazione o istruzione (i cosiddetti Neet). Il programma è rivolto in particolar modo a quei paesi che mostrano un tasso di disoccupazione giovanile al di sopra della media della UE (25%). La situazione italiana è ben peggiore, data la disoccupazione giovanile al 43%, con disparità geografiche altissime – oltre il 50% al Sud. In Europa solo Spagna e Grecia hanno una disoccupazione giovanile più elevata di quella italiana, e competiamo per la terza peggiore posizione con il Portogallo.
Lo schema della “Garanzia Giovani” si inscrive nelle cosiddette “politiche attive del lavoro”, cioè politiche d’indirizzo volte a favorire l’intreccio tra domanda ed offerta di lavoro, l’orientamento e la formazione. La Youth Garantee propone di offrire ai giovani al di sotto di 25 anni un’offerta “qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio” entro i 4 mesi dalla perdita di un impiego o dall’uscita dai percorsi formativi.
Per avere un effettivo impatto sull’inoccupazione giovanile l’ILO (International Labour Organization) stima che servirebbero risorse per circa 21 miliardi di euro. Al momento il quadro finanziario pluriennale 2014-2020 di miliardi ne stanzia solo 6. A questo si aggiunge un altro paradosso. Da un lato, nel documento, si chiede ai governi degli Stati europei di applicare molto rapidamente le misure della Garanzia Giovani con una postilla: gli Stati con una situazione di deficit fuori controllo, quindi quelli più in crisi, possono differire le misure o diluirle nel tempo. Per la serie: dove si avrebbe più bisogno di questa Garanzia Giovani meglio non farla subito per non rischiare di peggiorare i conti. Invece, nei paesi più ricchi, dove la necessità di queste misure non è altrettanto urgente, esse possono essere attuate più velocemente.
In alcuni passaggi del documento si propone una maggiore mobilità dei giovani in cerca di lavoro all’interno dell’UE. Anche qui però si crea un pericoloso paradosso per i paesi in difficoltà: in sostanza, si incentiva l’emigrazione giovanile verso i paesi più ricchi, che così beneficeranno della formazione erogata nelle aree periferiche. L’elemento problematico di questa situazione, per l’Italia e gli altri paesi periferici, non è soltanto legato ai costi di formazione non compensati dai benefici conseguenti l’impiego di personale ad elevata qualifica, ma anche al rischio della scomparsa della futura classe dirigente.
Nel documento UE si fa riferimento all’efficacia e all’efficienza degli uffici per l’impiego e alle strutture pubbliche e private che si dovrebbero occupare sul campo, a livello locale, dell’applicazione della Garanzia Giovani; se ne chiede un forte e pieno coordinamento centrale. E’ di dominio pubblico però che la riforma che ha trasformato il collocamento pubblico italiano in uffici per l’impiego in moltissimi casi ha peggiorato la situazione. Quel minimo di controllo pubblico che veniva effettuato nel collocamento pubblico, e che permetteva l’emersione di storture e malfunzionamenti, è sparito. Nella maggior parte degli uffici per l’impiego – non tutti, perché vi sono delle eccellenze, come ve ne erano nel collocamento pubblico – non esiste quasi nessun orientamento al lavoro, ma solo burocrazia e cordate di “amici degli amici”. Lo stesso dicasi per gli uffci per l’impiego privati o agenzie di lavoro temporaneo. In Italia la capacità dei centri per l’impiego pubblici di trovare lavoro ai disoccupati è insignificante. Gli occupati dipendenti che hanno trovato lavoro attraverso i centri per l’impiego (33 mila nel 2013), rappresentano il 2,6% della platea dei disoccupati registrati. Dunque, ammesso che questa Garanzia venga ben strutturata a livello europeo, non ci sarebbero probabilmente le condizioni minime per una sua corretta applicazione.
Ma esiste una questione di portata ancora più rilevante, che avrà un impatto sull’intera popolazione italiana. Le risorse stanziate a livello europeo dovranno essere aggiuntive rispetto a quelle che i singoli paesi potranno stanziare. Qualche esperto di economia dovrebbe spiegare come potrà funzionare questo meccanismo una volta che entrerà in vigore il Fiscal Compact (gennaio 2015). Lo stesso Fiscal Compact costringerà l’Italia a varare un piano per minori spese per circa 50 miliardi all’anno per i prossimi 20 anni, per garantire il rientro del rapporto debito pubblico/Pil al 60% (attualmente è al 133% circa). Siccome non si vede all’orizzonte nessuna ripresa economica, da dove saranno prese le risorse necessarie? Se si dovrà ridurre le spese di una quantità pari alle peggiori manovre finanziarie “lacrime e sangue” degli anni ’90, colpendo sicuramente scuola, università, sanità, quali risorse l’Italia potrà dedicare a questa “Garanzia Giovani”? Ricordiamo inoltre che l’Italia già oggi impiega per la spesa sociale molto meno che altri paesi europei paragonabili per numero di abitanti e numero di disoccupati. Rimanendo convinto che per sterilizzare il meccanismo del Fiscal Compact bisognerebbe avviare un movimento di disobbedienza che parta dagli Enti Locali, riterrei ragionevole considerare questo provvedimento, insieme a tutte le spese di formazione, scuola e welfare, fuori dal calcolo del rapporto deficit/Pil, come già è possibile fare con alcuni investimenti infrastrutturali. D’altra parte, quale migliore investimento strutturale per il nostro paese se non quello che prevede scuola e formazione di buona qualità per i suoi cittadini?
Il documento della Garanzia Giovani è anche perfettamente allineato con le richieste delle associazioni datoriali: esso infatti “suggerisce” la riduzione dei versamenti a carico dei datori di lavoro per contributi previdenziali e assistenziali per favorire nuove assunzioni. Si chiede quindi che la previdenza e l’assistenza siano a carico della fiscalità generale, e quindi a carico di tutti i cittadini. In parole semplici, il diritto alla pensione e all’assistenza di ogni lavoratore sancito nella Costituzione viene scaricato su tutti i cittadini, a tutto vantaggio delle imprese private che cosi aumentano i loro profitti attraverso il meccanismo di riduzione del costo del lavoro. Non si capisce poi cosa voglia dire nelle intenzioni del legislatore “offerta qualitativamente valida di lavoro”: un salario più alto della media? Una posizione lavorativa a tempo indeterminato? Un lavoro con una buona progressione di carriera?
E’ previsto anche che al posto di una “offerta qualitativamente valida di lavoro” possano essere proposti tirocini formativi e apprendistato: anche su questo punto però non è per nulla chiaro quali sarebbero le condizioni a cui i giovani dovrebbero sottostare, e non si capisce il motivo per cui le aziende private debbano poter scaricare i costi di formazione finale della propria forza lavoro sull’intera collettività. Non faceva (fa?) parte del rischio di impresa formare i propri dipendenti? Anche perché la piaga degli stages gratuiti non si riesce ad arginare, e potrebbe magari allargarsi ulteriormente se non si inseriscono dei paletti chiari ed invalicabili alla proposta.
Il programma Youth Guarantee non è affatto un progetto di formazione, bensì un progetto che dovrebbe avere lo scopo di far trovare lavoro ai giovani che hanno finito di studiare. La formazione è solo una delle sue declinazioni, per inciso l’ultima scelta, nel caso in cui i tentativi di trovare un’opportunità di lavoro fossero andati tutti a vuoto. E’ ovvio poi, per chi abbia una anche minima conoscenza della situazione italiana, che anche il limite di età di 25 anni per usufruire di questi benefici è irrealistico. In italia a 25 anni solo una piccola percentuale di giovani ha finito l’università. Se non si innalza il tetto ad almeno a 30 anni o 35 anni il bacino di utenza resterebbe veramente insignificante. Stessa cosa dicasi delle opportunità di auto-impiego: è un’ altra soluzione per mascherare un lavoro dipendente a basso costo?
I giovani attualmente iscritti al programma “Garanzia Giovani” in Italia sono 100 mila, ma sembrano esserci troppe poche aziende disposte ad impiegarli, come poche sono le Regioni che hanno attivato un sistema di accreditamento dei servizi del lavoro. Che stimoli può esercitare sulla domanda di lavoro una riduzione del cuneo fiscale per i nuovi assunti, quando le imprese si trovano a scontare una situazione di domanda di mercato in cui la domanda è fortemente compressa a causa della crisi economica e delle politiche di austerità? L’impatto modesto del bonus giovani non può sorprendere. Quella che si prospetta è la solita immagina edulcorata delle imprese vessate dalla crisi che, bontà loro, permettono agli studenti eccellenti di poter lavorare e, addirittura, a volte persino di essere pagati. Ma dov’è un serio piano per l’occupazione? Dov’è la ricognizione dei settori che trainano il mercato, i segmenti imprenditoriali che in questo momento hanno davvero bisogno di immettere nuove risorse, e che possono offrire vere opportunità occupazionali? Dov’è l’azione politica?
Se non si farà chiarezza su questi punti, alle buone intenzioni, ove ce ne fossero, non seguirà nessun concreto miglioramento per l’insieme dei cittadini. Resta da chiedersi allora se non sarebbe più utile utilizzare i fondi proposti per una introduzione a tappeto del reddito minimo garantito, o un salario minimo europeo, che potrebbe rappresentare una vera garanzia contro il ricatto della disoccupazione e della precarietà. In questo modo, si farebbe un primo passo per uscire dalla gabbia del “welfare familiare” italiano, su cui si scarica buona parte delle tensioni e dei costi sociali, allineando il nostro sistema di tutele sociali alle migliori esperienze del Nord Europa; si darebbe inoltre la possibilità di ridurre indirettamente “l’esercito di riserva” dei disoccupati, che non fa altro che abbassare ulteriormente il livello delle retribuzioni, e si aumenterebbe infine la capacità di spesa dei cittadini, con effetti benefici per l’intera economia. Ma i legislatori europei vittime (o carnefici?) dell’ideologia liberista-finanziaria avranno la lungimiranza di fare tutto ciò?