Sempre più spesso ci si trova ad avere a che fare con giovani che pongono domande del tipo: “A cosa serve studiare la storia?”, “Perché studiamo la letteratura?”. Tali questioni, di per sé imbarazzanti, invitano a una riflessione accurata su come, in effetti, si recepisca oggi la formazione umanistica, sempre più bistrattata e soggetta alle vergognose digressioni relativamente al “mangiare”, “non mangiare”, ecc. con la cultura. Come se si trattasse di una posata! Ecco perché, al cospetto di un giovane curioso del mondo e amante degli studi, riacquisto fiducia in quella generazione che muove i primi passi negli anni Novanta e che non riuscivo a percepire se non attraverso il filtro – fallace, invero – della società digitale. Cosimo Dellisanti è un coraggioso ventiquattrenne che non ha paura di gridare il proprio dissenso nei confronti di chi specula sui desideri e sulle illusioni della gente: una battaglia contro le case editrici a pagamento, un’idea chiara su cosa siano la cultura e la sua diffusione, sono le referenze importanti per questo talento in erba che ha il suo esordio letterario con Dragon Town, romanzo noir uscito per i tipi della casa editrice romana “Ensemble”.
Cosimo, sei molto giovane e già alle prese con le prime esperienze editoriali. Non posso fare a meno di domandarti qual è stata la molla che ti ha spinto a scrivere e proporre i tuoi lavori agli editori.
«La molla che mi ha spinto a scrivere è stata la lettura stessa. Leggo libri da quando ho imparato a leggere, poi a 10 anni mia madre mi comprò, per la promozione scolastica, la graphic novel Life and Times of Scrooge McDuck (volgarmente nota come la storia di Zio Paperone) e mi piacque così tanto che decisi che avrei scritto una storia d’avventura ambientata nel Klondike. Quella storia è ancora nel cassetto, non l’ho ancora terminata, ma mi sono ripromesso che un giorno l’avrei fatto. Poi sono venuti Salgari, Verne, Rowling, Manfredi e tantissimi altri, che mi hanno legato ancora di più al mondo dell’avventura scritta. Ho fatto studi umanistici – maturità classica e laurea in Lettere – quindi ho avuto modo di approfondire tecniche, stili e temi letterari. Per quanto riguarda il proporre agli editori, ero deciso da tempo a farlo solo una volta che avrei avuto qualcosa di valido. Qualcuno tempo fa mi tentò con l’autopubblicazione, un po’ come fecero le sirene con Ulisse, ma non ci cascai (meno male!, sarei naufragato prima ancora di lasciare il porto): ho atteso il momento giusto e nel frattempo mi sono perfezionato. Ho scritto Dragon Town cercando di venire incontro anche alle esigenze di un editore che, eventualmente, avrebbe poi investito nel mio lavoro. Ho scelto il linguaggio del noir-thriller perché molto popolare, ma mi accorgo che avrei potuto elaborare le stesse idee anche col fantasy, con la fantascienza, con l’avventura… Insomma, la scelta del thriller è stata dettata da una mera strategia “commerciale”. Poi a me nemmeno piacciono, i thriller…»
“Dragon Town” dunque: un romanzo, un thriller o, come dici tu stesso, una satira…
«Quando definisco Dragon Town spiego che è un romanzo con le caratteristiche della tragedia e della satira. Il fatto che sia thriller, noir, giallo e anche un po’ horror è marginale e, come detto, commerciale. Io mi rifaccio alla distinzione classica dei generi letterari: prosa, poesia e dramma. Ritengo thriller, noir, fantasy e quant’altro oggi passa per “genere” come filoni o tuttalpiù sottogeneri. Ora, Dragon Town è una tragedia perché ha dei temi tipici di questa, soprattutto quella senechiana (vendetta, legami famigliari spezzati, duelli “epici”…) e conserva anche la suddivisione in “atti”. È poi una satira (in senso latino e non attuale) perché vi ho inserito una impietosa descrizione di alcuni tipi umani, dal Presidente di Regione al parcheggiatore abusivo; inoltre vi ho messo così tante altre cose che è veramente un’opera satura! »
A proposito di Torino: hai partecipato al Salone del Libro. Come si è svolta quest’esperienza?
«È stata l’esperienza più bella dell’anno, fino ad ora. Sono stato avvisato per tempo dagli editori, che mi han chiesto se volessi raggiungerli a Torino per pubblicizzare dal vivo Dragon Town. La squadra “Ensemble” è stata formidabile. Non avevamo a disposizione lo spazio delle case editrici più grandi, come si può immaginare, eppure la gente si è fermata da noi e – incredibile ma vero – ha comprato molti libri, tra cui un bel po’ di copie del mio. Non ho voluto incontrare nessun big: avrei dovuto passare ore in fila per poi poter al massimo stringere una mano e mendicare un po’ di attenzione da qualcuno che nemmeno sa che esisto e che si sarebbe dimenticato il mio nome dopo due minuti. Detesto la piaggeria nei confronti dei grossi calibri. No, ho preferito bazzicare intorno al nostro stand o girare per le bancarelle dell’editoria indipendente, saltando a piè pari gli stand delle grosse case editrici. I momenti più belli sono stati essenzialmente due. Anzitutto l’aver conosciuto di persona e aver stretto amicizia con gli editori, la squadra della redazione e gli altri autori intervenuti, come Magda Mangano e Fabrizio Grimaldi, che cercherò di portare presto a Taranto; l’altro momento fondamentale è stato quando ho firmato le copie di Dragon Town agli avventori: perfetti sconosciuti provenienti da tutta Italia che hanno speso dei soldi dandomi fiducia. Spero di essere stato all’altezza delle aspettative.»
Veniamo a una questione che mi sembra ti stia molto a cuore: la battaglia all’editoria a pagamento. La competenza e la professionalità prima di tutto…
«Capitò, poco prima che iniziassi a lavorare seriamente su Dragon Town, che mi fu proposto di pubblicare a pagamento. Scrissi in una settimana un romanzo storico-avventuroso. Mi è bastato avere per le mani il primo (e unico!) volume stampato di quella roba per capire che mi stavo per suicidare stupidamente. A parte il formato del libro orrendo, la storia, frutto della fretta, era qualcosa di illeggibile, incredibilmente stupido e insensato. Oggi quel libraccio è conservato in una teca della mia libreria a memoria perpetua delle idiozie che si possono combinare quando si è giovani, inesperti e malconsigliati. Capii allora quanto di sbagliato c’è nell’EaP. Insomma, si parla tanto di merito e meritocrazia, ma che merito c’è nel pubblicare pagando? È capitato già più di una volta. Ma che messaggio diamo ai ragazzi? Che devono pagare per ottenere il successo che vogliono? Ci schifa tanto il politico che va a donne ma non ci fa ribrezzo la questo tipo di politica culturale, a quanto vedo. Secondo me, la colpa di reiterare questa pratica sta tanto nello scrittore che paga, quanto nel pubblico recettore che è disposto a proclamare artista uno che non ha mai letto un libro in vita sua ma che ne ha comunque scritto uno. Chi ci guadagna davvero, poi, sono gli editori a pagamento, perché lo scrittore ci rimette di certo, sborsando una somma spropositata, mentre il lettore, a volte costretto a comprare il libro dell’amico o dell’amica, deve pure pagare per qualcosa di fatto male, inutile e spesso dannoso, che probabilmente nemmeno leggerà.»
Cosa consiglieresti a chi volesse intraprendere una carriera legata indissolubilmente al mondo delle lettere?
«Non di leggere, ma di studiare. Studiare seriamente. Non c’è bisogno di una laurea in Lettere per scrivere bene, purché chi scrive si impegni seriamente nello studio della lingua, della scrittura e della storia della letteratura. La scrittura non è un divertimento, è un lavoro vero e proprio, che forse non rende economicamente come dovrebbe, ma è così. Ci vuole ingegno, creatività, dedizione e serietà, oltre ad una base culturale solida. Ricordate che scrivere non diverte voi, ma deve divertire e arricchire il lettore. Si presuppone che lo scrittore sia già ricco di suo, ricco di contenuti. Scordatevi frasi come “spegnere il cervello”, che va tanto di moda attualmente, perché lo scrittore non può spegnere il cervello mentre scrive, né deve poterlo farlo il lettore, perché allora il fallimento è totale. E mi piacerebbe dare un consiglio anche a chi vuole intraprendere la carriera del lettore, che sta andando in esaurimento: ignorate i libri scritti a pagamento e date più fiducia alle case editrici indipendenti, che lavorano per passione e non per pubblicizzare i vip di turno. Non è il nome che conta, ma il contenuto del libro e nel sottobosco dell’editoria indipendente c’è chi vuole davvero dare a voi qualcosa di bello, utile e vero.»
Il messaggio di Cosimo è chiaro e appare ancora più forte se si considera la sua giovanissima età. L’invito è a diffidare, sempre,da politiche come questa che non valorizzano l’autore. Un lavoro è valido se c’è un editore disposto ad investire e che crede in un progetto, garantisce una diffusione all’opera e, soprattutto, tutela il proprio autore.
In una città in cui gli scrittori sono veramente troppi, forse bisognerebbe tornare un po’ con i piedi per terra e riprendere in mano i libri… Leggerli sarebbe un buon inizio.
StecaS