Pubblichiamo un saggio di Roberto Nistri sulla Grande Guerra e le sue rappresentazioni.
“In tempo di guerra il diavolo
Fa più spazio all’inferno”
Vecchio proverbio tedesco
Il 15 maggio 1921 duemila persone marciarono fino a sera per le strade di Los Angeles, giungendo alle soglie di una rivolta: erano i veterani mutilati che raccontavano del vampiro che aveva svuotato il mondo, succhiando il sangue di milioni di persone. Era la danza macabra dei senza volto, dei torsoli umani, dei freaks. La storia si rappresentava ormai come un’anonima catena di montaggio della mostrificazione . Il regista James Whale, ricordando i suoi giorni di guerra, si sarebbe ispirato per la maschera di Frankenstein (l’uomo rianimato e rappezzato, ricostruito con gli scarti) a quei reduci trasmutati, quei “cari mostri” che avrebbero fatto la fortuna di Hollywood, con il grande cinema Horror.
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Nel centenario della “madre di tutte le guerre”, in qualche aula scolastica forse si aggira ancora lo spettro di Gavrilo Princip, la testa di turco, il folle terrorista che doveva spalancare le porte dell’inferno, moltiplicando le deviazioni irrazionali e demoniache. In realtà doveva essere l’ultimatum austriaco alla Serbia a fungere da detonatore del conflitto, considerando che tutte le potenze interessate avevano già il colpo in canna. L’Europa aveva deciso di autodistruggersi. Iniziava la marcia dei sonnambuli verso l’abisso. Una guerra fra teste coronate: parenti, cugini e cognati. La lunga miccia era accesa da tempo. Le guerre balcaniche, suscitate negli anni precedenti, avevano accumulato furori interimperialisti per i possedimenti coloniali e le rotte commerciali, con una corsa ormai sfrenata al riarmo. Guerra alla guerra, il generoso slogan di socialisti e libertari, doveva finire strozzato nel grande Pandemonium, la festa di tutti i diavoli e dei grandi profittatori. La grande speranza della Internazionale Socialista naufragava indecorosamente, votando nel Parlamento tedesco i crediti di guerra. Non s’inchinavano al militarismo solo Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht. Avrebbero pagato con la vita la loro fierezza, mentre duecento milioni di individui iniziavano a marciare verso la catastrofe, convinti che la guerra sarebbe stata facile e breve: illusi dalla solita fiaba del “tutti a casa per Natale”.
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In Italia, malgrado una maggioranza neutralista nel Parlamento, ma anche nei settori popolari, veniva orchestrato un golpe strisciante gestito dalla Corona, dai potentati economici, dalle gerarchie militari, da intellettuali come D’Annunzio e la sua coorte di aspiranti terroristi letterati, capaci di mobilitare ampi settori dell’opinione pubblica a favore dell’Intervento. Il nazionalista Corradini nel 1910 aveva proclamato: “L’Italia è una nazione proletaria che ha bisogno di una guerra vittoriosa!” Prima ancora dell’entrata in guerra, già nel 1914, erano caduti nelle Argonne, in una specie di legione straniera, tre nipoti di Garibaldi, con effetti moltiplicatori sulle organizzazioni di teste calde. Lo scrittore Barzini pubblicava, sul “Corriere della Sera”, un racconto inventato di sana pianta sull’ultimo assalto garibaldino.
Scriveva Giovanni Papini nel 1914: “Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai, finché dura (…) Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero, dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Non si rinfaccino, a uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere?”. Miti funesti, che avrebbero causato inutili lacrime per la morte del letterato Renato Serra, partito volontario e caduto sul Podgora, in un universo di fanghi e di stenti. Nel suo scritto estremo, Serra si era convinto della inutilità della guerra, che non avrebbe migliorato neanche la letteratura, anzi. Prevedeva l’orgia retorica delle scadenti celebrazioni cimiteriali del fascismo emergente. Rimarranno i versi del fantaccino Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Anche se a Bolzano, nel centenario del conflitto, il sindaco continua ancora oggi la sua guerra, rifiutandosi di esporre il tricolore.
“Ci avevano nel palmo della loro grande mano
Quando fingevamo di essere morti”
Bricks Are Heavy
Squillavano ormai le trombe del mainstream patriottardo e menzognero. Una catena di genocidi, dal 1914 al 1918, doveva insanguinare il vecchio mondo e le sue appendici coloniali, coinvolgendo settanta milioni di maschi europei (quattro milioni gli italiani) e altrettante persone legate ai giovani mandati “al fronte”. In pochi mesi, “l’epoca bella della modernità trionfante si tramutava nell’epoca tragica della modernità massacrante” (Emilio Gentile). Una civiltà suicida sui fronti di guerra veniva subito avvertita da testimoni come Freud, Hesse, D.H. Lawrence come il naufragio dell’uomo europeo. Tutti i sogni di gloria sarebbero stati risucchiati nel gorgo infame. Un grande testimone dell’epoca, lo scrittore Stefan Zweig, nel suo libro Amok, poteva parlare di “follia rabbiosa”, di monomania omicida e insensata. Valga il sogno del nichilista assassino Raskolnikov in Delitto e castigo: “tutto il mondo era condannato ad essere vittima di una tremenda pestilenza, mai vista prima. Interi villaggi, intere città e nazioni venivano infettate e cadevano in preda alla pazzia. Gli uomini si uccidevano tra loro, presi da una rabbia forsennata. Gli eserciti si dilaniavano da soli. I guerrieri si infilzavano e si sgozzavano, si mordevano e si divoravano tra loro”. La guerra come festa celebrava i trionfi della macchinolatria futurista. “Altolà, che mi guarda la gente/nel vedermi appoggiato a un bastone…/Altolà, sono un vecchio sergente/e so dirvi, qual voce ha il cannone…/Una volta s’andava a battaglia/come a un ballo cantando si va…/Parea pioggia di fior la mitraglia/ Ratataplàn!”. “Una notte il cannone rimbomba/io mi levo dal suol dove giaccio,/ fate largo, qua arriva una bomba! Maledetta, mi porta via un braccio!” (Alberto Arbasino). Boccanera, avanguardista mangiafuoco, finisce col bruciare se stesso, inghiottendo l’ultima fiammata.
Come avrebbe argutamente rievocato lo scrittore Beniamino Placido, in un sabato dell’agosto 1914, nelle cerimonie religiose tenute nello stesso giorno a Berlino e a Parigi, i ministri del culto garantivano il pieno sostegno di Dio alle nazioni reciprocamente belligeranti. Addirittura il laicissimo governo dei Giovani Turchi stimolava l’odio religioso musulmano contro gli “infedeli”, inneggiando alla “ guerra santa” e organizzando il primo genocidio del Novecento, la strage degli Armeni, che ancora la moderna Turchia si rifiuta di riconoscere. La grande illusione: quella che doveva sanzionare la fine di tutte le guerre, doveva rivelarsi la “madre di tutte le guerre e di tutte le menzogne”.
La storica americana Barbara Tuchman ha segnalato che, quando l’esercito tedesco invadeva il Belgio, sul quale si scaricavano tonnellate di Yprite (il nome del gas sarebbe derivato dalla città di Ypres) nel 1914 i soldati cantavano canzoni patriottiche quando marciavano, quando si fermavano per una breve sosta e anche nel momento precedente il riposo notturno. I sopravvissuti alla guerra hanno poi ricordato quei canti senza fine come il peggior tormento patito nel periodo dell’invasione. Da parte loro, i comandi si sentivano quasi alleati contro un avversario comune: la testa dei soldati.
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La “miracolosa” tregua di Natale del 1914, quando i nemici fraternizzarono nelle “terre di Caino” nonostante l’opposizione degli ufficiali (evento ricordato da Paul Mc Cartney in Pipes of Peace) doveva rimanere nella memoria e nel mito come una testimonianza di umanità fra le trincee. Il 24 pomeriggio i tedeschi facevano sporgere dalle trincee alberelli illuminati e di fronte gli scozzesi rispondevano con i suoni struggenti delle cornamuse. L’8 gennaio la prima pagina del Daily Mirror era occupata da una foto di “nemici affratellati” (Luigi Zoja). Intanto la guerra industriale aveva inventato l’aviazione, i carri armati, i gas: la battaglia diventava massacro indifferenziato di uomini e bestie, in balia del perpetuo frastuono della storia. Non mancavano le menti illuminate: Benedetto Croce, in accordo con Romain Rolland, dichiarava che gli intellettuali non dovevano prestarsi al ruolo di “sacre meretrici” per la patria. Purtroppo, come diceva il Manzoni, sovente il buon senso si nascondeva dietro il senso comune.
Così scoccava l’ora nera della caccia agli untori, i disfattisti, i pacifisti imbelli. Di contro, il mito del “buon soldato”, sempre pronto a morire cristianamente per la Patria, mentre il nemico era ovviamente degradato al rango di grottesca caricatura. Stereotipi ben riconoscibili ancora oggi nella storia politica d’Italia. Nasceva la guerra di massa combattuta da un “soldato senza nome e senza qualità”, dal fascismo poi monumentalizzato nell’icona del “milite ignoto”. Padre Agostino Gemelli, il fine psicologo dell’Università del Sacro Cuore, teorizzava che il buon soldato era l’idiota, lo spersonalizzato, colui che non si chiedeva mai il perché, l’homme machine. Come ideale un esercito di zombie, una vita senza vita. Un popolo ingenuo ed ignorante, inviato ad un appuntamento fatale con scarpe di cartone e moschetti difettosi, era sequestrato da comandanti narcisisti e irresponsabili, che costringeranno lo storico al ruolo di “accanito collezionatore di ammutinamenti, di proteste e di ogni possibile segno di dissenso sociale e militare” (Mario Isnenghi).
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L’attacco al Lusitania, il lussuoso piroscafo oceanico, affondava gli ultimi sogni della Belle Epoque, trascinando sul fondo 1201 passeggeri e qualunque codice d’onore. I civili erano ormai un bersaglio legittimo e non accidentale. Gli Stati Uniti si decidevano così ad entrare in guerra contro la Germania, mentre i tedeschi, durante la marcia sul Belgio, massacravano migliaia di civili. Mario Desiati ha raccontato una incredibile vicenda salentina: alcuni comuni, fra cui Taviano, venivano circoscritti in una zona rossa, quella dove ancora era diffuso il vaiolo, ma la necessità di arruolamenti richiamava al fronte migliaia di infetti o non infetti (cfr. la Repubblica-Bari, 15 febbraio 2015).
I soldati vagheggiati dagli scrittori dell’epoca suscitavano fantasie infantili, di adesione voluttuosa alla obbedienza meccanica, come i soldatini di piombo idoleggiati da Paolo Buzzi: “La gioia d’essere automa entro l’ordine chiuso militare, la sensazione di volontaria subordinazione che ben si adattava al mio temperamento”. L’esercito come generatore rassicurante di ordine e disciplina. Più truculente le fantasie di pulizia etnica. D’Annunzio in Laus vitae: “Le vostre vergini molli le soffocheremo nel nostro amplesso robusto. Sul marmo dei ginecei violati, sbatteremo i pargoli vostri come cuccioli. Il grembo delle madri noi scruteremo col fuoco, e non rimarranno germi nelle piaghe fumanti”. Corrado Govoni in Guerra!: “Puoi compiere tutte le vendette, soddisfare ogni tua cupidigia, senza alcuna proibizione. Se vuoi entrare in una chiesa e fracassare col calcio del fucile il ceffo muffo di qualche crocifisso, nessuno griderà: sacrilego! Nessuno ti metterà in prigione. Puoi sfondare se ti aggrada una porta con una tua spallata, salir le scale coi tappeti senza pulirti dal fango le scarpe, scannare i servitori pieni di bottoni, impiccare il proprietario e prenderti la sua bella figlia e godertela a sazietà, tutta ignuda sul suo letto, calda e tremante come l’uccellino che si tien prigioniero nella palma; dopo, se ciò ti fa piacere, la puoi sgozzare e gettare come uno straccio nel cortile, che i suoi cani le lecchino il suo sangue blu. Puoi riempirti le tasche di gioielli e regalarli tutti per un bacio come un prodigo milionario alla prima fanciulla scalza che incontri per la via.” Sempre chiaro il Govoni: “siamo spinti non dall’amore di famiglia e di civiltà, ma dal nostro oscuro istinto di conquista e di rapina, dalla stupenda ribellione contro tutte le false leggi sociali: menzogne, maschere. Solo la voracità e l’insaziabilità sono le vere forze vive della creazione. Saccheggia, stupra, ammazza, massacra, incendia, devasta, sconquassa, strazia!”. Il povero Clemente Rebora, poi divenuto sacerdote, doveva proclamare: “E’ giunta l’ora della razza assassina, dei violenti e degli eroi!”. Ancora Govoni: “La guerra è una irrepetibile occasione di libertà assoluta, di regressione alla pura animalità. In guerra tutti i divieti saltano, è lecito quanto ordinariamente è vietato (a cominciare dal furto all’omicidio): un mondo capovolto e assolutamente privo di norme. Ricordati: puoi fare quello che vuoi. Bevi lo champagne, prendilo nelle più ricche cantine, senza che nessuno ti dica che sei un ladro. Se incontri un viandante qualunque, spaccagli il cranio. Se incendi una casa, sarai un Eroe.” La guerra come festa, sospensione delle regole nella vita associata. Uccido quindi sono. La guerra è semplicemente bella, perché selvaggia esplosione dell’io: permette di spezzare tutte le catene del vivere civile.
Con ben altra sensibilità, in tempi successivi, il grande Stanley Kubrick avrebbe saputo rappresentare l’infame eruzione escrementizia, grondante negli Orizzonti di gloria .
All’epoca, la propaganda coinvolgeva già l’industria cinematografica italiana, che si guardava bene dall’usare la griglia pulp e cannibalesca dei letterati citati. Si privilegiava invece un registro sdrammatizzante e macchiettista, come il Maciste alpino del 1916, con il forzuto Bartolomeo Pagano, che fronteggiava gli austroungarici a suon di ceffoni e frasi sentenziose. La esperienza bellica avrebbe coinvolto potentemente l’arte cinematografica, ma anche la pittura. Picasso, scampato in quanto spagnolo al grande scannatoio, passeggiando per Parigi, si accorgeva che anche il cubismo era finito in prima linea, modello per il camuffamento di convogli militari in assetto mimetico. In realtà c’era un esercito di artisti in divisa, di pittori soldati: partivano cantando per il fronte e finivano a correre nel fuoco, con un blocco di disegni in tasca.
“Sarei dunque io il solo vigliacco sulla terra? (…) Perduto in mezzo a due milioni di pazzi eroici e scatenati e armati fino ai denti? Con elmetti, senza elmetti, senza cavalli, su moto, urlanti, in auto, fischianti, sparacchianti, cospiranti, volanti, in ginocchio, scavanti, defilanti, caracollanti sui sentieri, spetazzanti, schiacciati pancia a terra, come in una cella d’isolamento, per distruggere tutto, Germania, Francia e Continenti, tutto quello che respira, distruggere, più arrabbiati dei cani” ( Louis-Ferdinand Céline).
Cadorna dixit: “Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Chi retrocede sarà raggiunto dal piombo delle linee retrostanti e dai carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe”. Si diffondevano le psicopatologie: il soldato voleva finire la guerra sparandosi a una mano o ad un piede. Peggio: gocce di acido muriatico nelle orecchie, timpani forati con chiodi, iniezioni di petrolio nella spina dorsale. Le punizioni erano terroristiche. “Hanno cominciato a fucilare i soldati semplici per tirargli su il morale, a drappelli interi”… “Sto ragazzo è un anarchico, bisogna fucilarlo… altri più pazienti asserivano che ero soltanto sifilitico e folle autentico e di conseguenza andavo rinchiuso”, scriveva il francese Céline.
“Nostra patria è il mondo intero, nostra fede è la libertà”, aveva cantato l’anarchico Pietro Gori, con i suoi cavalieri erranti. “Andrem di terra in terra /a predicar la pace / e a bandir la guerra”
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L’insubordinazione collettiva determinava il ricorso all’odiosa pratica della decimazione, che consisteva nel fucilare un certo numero di soldati, estratti a sorte dal gruppo all’interno del quale si erano manifestati i disordini. Un soldato protestava la sua assenza durante la trista giornata, ma il colonnello replicava paternamente: “non possiamo cercare quelli che c’erano e quelli che non c’erano. Se tu sei innocente, Dio ne terrà conto”. Fuoco tambureggiante, fuoco d’interdizione, cortina di fuoco, bombarde, gas, tanks, mitragliatrici,bombe a mano: sono parole, ma abbracciano tutto l’orrore del mondo, scriveva E. M. Remarque.
La carne da cannone impazziva. Circa 40.000 soldati erano in preda delle allucinazioni. Si rifugiavano nella follia come ultima via di fuga: colpiti da disturbi mentali, dopo una troppo lunga permanenza al fronte o per aver subìto violenti bombardamenti. Anche nei loro confronti si esercitava il dubbio della simulazione. “Muoiono gelati a centinaia. Vi sono truppe allo scoperto, sotto il tiro del cannone nemico e si vuole che avanzino” (da una lettera di un generale dissidente a Giolitti, 1915). Assalti alla baionetta contro le mitragliatrici. In un solo colpo morivano a migliaia, sotto lo sguardo, sovente esaltato, dei generali posti a distanza di sicurezza. Nelle trincee sul Carso gli uomini vivevano nel gelo e nel fango, nel puzzo dei loro escrementi, come pidocchi nella cucitura d’una fodera, scriveva Robert Musil.
“Non potevano sentire una parola di ciò che dicevamo
Quando fingevamo di essere morti”
Bricks Are Heavy(1992)
La dura realtà trapelava dalle scritture di guerra: lettere, messaggi, dediche, pagine di diario e anche canti di trincea. Gorizia tu sei maledetta, cantavano i soldati che in un solo giorno avevano visto cadere 21.630 morti. Si arrivava alla follia rievocata da Nuto Revelli: “I nostri ci bombardavano per farci uscire dalla trincea, per spingerci all’assalto (…) ne sono morti a migliaia”. Nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917, a Redipuglia: tumulto bloccato da squadroni di cavalleria, mitragliatrici e cannoni, 2 ufficiali uccisi, altri feriti, passati per le armi 28 soldati, di cui 12 per decimazione. Il memoriale del generale Tommasi non venne mai reso noto.
“Il fronte italiano non lo spezza nessuno, dichiarava Cadorna”; “i l’han spezà cun nienti…” raccontavano i soldati. Il momento della verità doveva giungere a Caporetto (24 ottobre 1917). Disastro speculare col futuro otto settembre del ‘43. In ambedue i casi la mattanza avrebbe travolto un popolo di sbandati o in fuga, come nei film La grande guerra di Monicelli e Tutti a casa di Comencini. Come contraltare la pochezza professionale e intellettuale degli alti comandi, paralizzati dalla sorpresa, con quel Badoglio che riusciva, dopo il fuggi fuggi, a rimediare anche una medaglia d’argento: “una brutta medaglia” avrebbe commentato Ferruccio Parri. Una pezza peggiore del buco.
Come ha acutamente sottolineato Mario Silvestri, l’anniversario di Caporetto nel 1997 ha suscitato più curiosità e interesse dello stesso anniversario di Vittorio Veneto nel ‘98: “Come se la disfatta potesse spiegare più cose della vittoria”. Da quel grande calderone doveva emergere la mitologia della “vittoria mutilata”, il grimaldello che il protofascismo avrebbe utilizzato per la conquista del potere. Nessuno aveva voluto perdere le occasioni per saltare sul “treno della guerra”, considerata un benefico “velocizzatore” della storia.
Restava la vera epopea, quella guerra grande affrontata da contadini, artigiani, operai, immersi nelle trincee: scavate all’inizio come rifugi provvisori, diventavano le anticamere certe della morte. Quando i capi spedivano i soldati all’assalto, sapevano che sarebbero stati falciati dalle mitragliatrici nemiche, per poi finire nel mucchio della carne perduta. Un evento epocale che sconvolgeva la vita quotidiana di milioni di persone: doveva certo colpire la sua “grandiosità e spettacolarità”, nella smisurata capacità di annientamento. Quella tragedia ci ammonisce in perpetuo: ci ricorda che se si inventa una nuova arma, prima o poi qualcuno la userà al massimo del suo potenziale (Lara Crinò). La modernità aveva regalato ai combattenti il nemico invisibile, la “nube tossica” del fosgene (originariamente usato per la colorazione dei tessuti con cloro e fosforo) e la yprite , cloro e zolfo con un particolare odore di mostarda. Il liquido sparso sul terreno provocava nella trincea ulcerazioni polmonari. Il fante italiano poteva difendersi solo con un pezzo di pane bagnato in bocca, e il fazzoletto. Nel luglio del 1916 un bersagliere poteva essere legato ai reticolati per tutta una notte. Giusto per ricordare l’eredità e il simbolo più duraturo del Novecento: il filo spinato. Il 18 giugno 2015, Adriano Sofri avrebbe scritto: “Investite in reticolati e fili spinati, il futuro è là”. Una provocazione, considerando che gli ungheresi per primi hanno innalzato sterminati recinti per impedire il transito ai serbi, nella grande migrazione del 2015. Tutto è stato già detto, ma purtroppo si deve ricominciare sempre da capo: “Gli spacciatori di paura sono sempre all’erta, annunciando la solita pestilenza causata da topi e migranti”.
“Se tu potessi sentire / ad ogni sobbalzo / il sangue che arriva / come un gargarismo dai polmoni rosi dal gas / tu non diresti con tale profondo entusiasmo / ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria / la vecchia bugia: dulce et decorum est pro patria mori”. Wilfred Owen 1917. Soldato inglese, morto per “fuoco amico” pochi giorni prima della fine della guerra.
I piloti delle Squadriglie di bombardieri Caproni sul fronte italiano dovevano essere decisivi nella battaglia di Vittorio Veneto. Ma Pietro Larigiola poteva testimoniare della fame e dei lavori forzati nel (già allora tristemente noto) campo di Mauthausen. Anche sul fronte italiano i piedi si congelavano e i sottufficiali costruivano il regno del terrore. Con il protrarsi del conflitto, i messaggi alle famiglie raccontavano solo della nuda vita nella trincea, la vita che vuole ancora vivere. Un contadino scriveva con semplicità alla moglie: “Si vede proprio che questa guerra non ha fine”. Offensive inutili e diserzioni disperate. La guerra non era una festa e alcuni artisti e letterati come Ardengo Soffici e Massimo Bontempelli avrebbero testimoniato quanto fosse stata sventata la loro generosa giovinezza (Cesare De Seta).
Il paradigma della “guerra di posizione” , come tutti sanno, sarebbe stato in seguito proposto da Antonio Gramsci ai comunisti italiani, come un modello di strategia rivoluzionaria: per i proletari un poco gioioso assalto al cielo, una Stairway to heaven al ritmo della tradotta e del Ta pum, Ta pum. Un ritornello ispirato al rumore dei minatori nelle gallerie e agli spari della fucileria austro-ungarica. Intanto nell’agosto 1917, a Torino, contro gli speculatori e i cosiddetti “pescicani”, che si ingrassavano con la guerra, esplodeva una protesta spontanea che doveva essere repressa con 41 morti e una lunga serie di dure condanne da parte dei tribunali militari. L’unica legge era quella marziale, la guerra faceva strame dei diritti, la fabbrica taylorista costruiva l’operaio-soldato perfetto: un “pezzo” da montare, l’ironman vagheggiato da Marinetti.
“E quando ebbe attraversato il ponte,
gli si fecero incontro i fantasmi”
Nosferatu (1922)
L’unica proposta dignitosa del Centenario rimane quella di riabilitare i militari assassinati. Restituire l’onore alle vittime della giustizia sommaria, passati per le armi ad opera di altri militari: una violenza gratuita, una strage di stato a norma di legge, contro soldati italiani. L’Italia deve ancora riconciliarsi con i suoi figli ammazzati. I principali paesi belligeranti hanno da tempo riabilitato, nella memoria nazionale, togliendoli dal ghetto della vergogna e della rimozione, i fucilati nella schiena che avevano chiesto rispetto. Manca all’appello il nostro paese, che più largo uso ha fatto della giustizia sommaria: 750 fucilati con processo, 200 colpiti da decimazione per estrazione a sorte, un numero incalcolabile di psicolabili e di protestatari. Onore al regista Francesco Rosi, che per primo ha posto il problema con il suo film Uomini contro.
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Onore al sindaco Edimiro Della Pietra che, rischiando una denuncia di apologia di reato, ha elevato un monumento a Cercivento, campo di fucilati. I soldati della zona, che conoscevano quel terreno palmo a palmo, si rifiutavano per missioni evidentemente suicide. Quando i comandi decisero un attacco in pieno giorno, senza supporto di artiglieria, alcuni soldati suggerivano di compiere l’assalto col favore della notte e questo bastava per la corte marziale. Nel processo notturno gli accusati erano decine e ciascuno aveva nove minuti per l’autodifesa. Un’ora prima dell’alba, la sentenza e la fucilazione. Tre scariche e tre colpi di pistola alla testa. Erano emigranti dalla Germania che avevano scelto di rientrare per “servire la patria”.
L’intero reparto veniva trasferito per punizione. Dopo 70 anni il nipote del fucilato Gaetano Ortis , “recalcitrante e vigliacco”, chiedeva la revisione del processo, ma il tribunale di Roma rispondeva beffardamente: la domanda non poteva essere accettata, perché non presentata dall’interessato. Paolo Rumiz ha ricordato quell’Andrea Graziani, noto per avere fucilato un soldatino che lo aveva guardato con la cicca in bocca. A guerra finita qualcuno avrebbe trovato il Graziani morto lungo la ferrovia. Mentre la febbre “Spagnola” provocava 500.000 morti, la riorganizzazione dell’esercito operata da Armando Diaz e l’ultima leva dei “ragazzi del ‘99” consentivano di scatenare contro gli austriaci una serie di offensive sul Piave che dovevano culminare nello scontro finale di Vittorio Veneto. Rumiz ricordava che al tempo si diceva La Piava, ma il nazionalismo doveva imporre la sua mascolinizzazione. Il 9 novembre 1918, per le molteplici ferite, si spegneva a Parigi il poeta Guillaume Apollinaire, che nel suo epitaffio aveva scritto: “Io lego all’avvenire la storia di Apollinaire, che fu alla guerra e sembrava essere ovunque”. Ungaretti, nel tripudio parigino della fine del conflitto, si affrettava a recapitare al caro amico Guillaime i suoi sigari preferiti, ma lo trovava ormai morto nel suo letto.
Sui muri si scriveva: “Dietro al ponte c’è un cimitero, cimitero di noi soldà”
Madremorte
Il protagonista del romanzo autobiografico di Erich M. Remarque cadeva nell’ottobre 1918. Veniva ritrovato con la faccia sul terreno, come se dormisse. Aveva una espressione serena, come fosse contento di finire così. Era una giornata così calma e silenziosa, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: Niente di nuovo sul fronte occidentale. Rimane il titolo più famoso su quella “notte di uomini”. La “vittoria assassina” (V. Majakovskij) era l’incubatrice de L’uovo del serpente (Ingmar Bergman). Ormai l’Europa, inquieta e impoverita, era assuefatta al contatto quotidiano con la morte di massa. Inarrestabile era ormai l’escalation del warfare tecnologico. I trattati di pace dovevano essere altre micce, pronte ad esplodere nel turbolento dopoguerra. La prima guerra mondiale era di fatto l’origine di quella “guerra civile europea” che sarebbe durata trent’anni, come ebbe a scrivere J. Hobsbawm. Il vignettista Scalarini, alla vigilia di Natale del 1920 pubblicava sull’“Avanti !” l’immagine di una Madremorte, la guerra, che si apprestava a depositare il proprio figlio, il fascismo, nella mangiatoia del capitalismo. I diari di guerra di Gadda possono essere considerati il podromo dell’Italia malata di fascismo perenne.
Roberto Nistri
Testi di riferimento:
Italo Pietra, Non scappi, c’è una medaglia per lei! , in “l’Espresso”, 23 dicembre 1977
Ernst Friedrich, Scene di orrore quotidiano, Mondadori, 2004
Maurizio Bettini, Quel filo spinato che segna il ‘900, in “la Repubblica”, 20 agosto 2005
Antonio Gibelli, La grande guerra. Storie di gente comune, Laterza, Bari, 2014
Emilio Gentile, Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo, Laterza, Bari, 2014
Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il Mulino, Bologna, 2014
Gian Enrico Rusconi, 1914:attacco a occidente, Il Mulino, Bologna 2014
Angelo Gatti, Caporetto-Diario di guerra, Il Mulino, Bologna, 2014
Aldo Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Mondadori, 2014
Paolo Rumiz, L’ultima ferita della Grande Guerra: l’Italia riabiliti i militari fucilati, in “la Repubblica”, 31 ottobre 2014.
Marco Rossi, Gli ammutinati delle trincee. Dalla guerra in Libia al primo conflitto mondiale, Bfs, Pisa, 2014
Gigante, L. Kocci, S. Tanzarella, La grande menzogna, Dissensi
Erich M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, 1929
Louis-Ferdinand Cèline, Viaggio al termine della notte, Roma , 1932
Filmografia italiana:
Maggi e Borgnetto, Maciste alpino, 1916
Mario Monicelli, La grande guerra, 1959, censurato e vietato ai minori
Vittorio Cottafavi, La trincea, 1961
Sergio Corbucci, Il giorno più corto, 1963
Ermanno Olmi, I recuperanti, 1970
Alfredo Giannetti, La sciantosa . Il soldatino e la soubrette, 1970
Francesco Rosi, Uomini contro, 1971
Pasquale Festa Campanile, Porca vacca, 1982
Leonardo Tiberi, Fango e gloria. La Grande guerra, 2014
Ermanno Olmi, Torneranno i prati, 2015
Paolo Cevoli, Soldato semplice, 2015
Prima del film di Monicelli, la Grande Guerra non esisteva per il cinema italiano. Quarant’anni erano trascorsi dalla fine del conflitto ’15-‘18, senza lasciare un solo titolo degno di ricordo. E ciò mentre gli stranieri avevano allineato una bella serie di capolavori: da Charlot soldato del 1918 a Orizzonti di gloria di Kubrick del 1957. Doveva toccare al maestro della commedia all’italiana, in una situazione politica alle soglie di un tentativo autoritario del governo Tambroni, di restituire al fante tremebondo l’onore del sacrificio estremo, ovviamente misconosciuto. L’eroe senza nome della “guerra nel fango”.