I sedici arresti per spaccio di droga effettuati nella notte fra lunedì e martedì scorsi nella Città Vecchia di Taranto hanno destato grande clamore. La notizia è stata ripresa dagli stessi telegiornali nazionali, assieme ad avvenimenti analoghi verificatisi in altre città del Mezzogiorno (Napoli e Palermo, in particolare). Il tema che si ripropone – non essendo mai stato affrontato adeguatamente – è quello delle condizioni di vita degli strati marginali della popolazione, all’interno di aree geografiche sempre più periferiche. In questa sede non si può sviluppare l’argomento in tutta la sua estensione; ci si limiterà a qualche accenno al caso Taranto.
Solo chi non vuol fare i conti con la realtà ha continuato (e continua) ad ignorare che una parte significativa dell’economia delle zone marginali della città – e il borgo antico rientra a pieno titolo fra queste – si basa sullo spaccio. Ci troviamo di fronte a un fenomeno capillare, che investe massicciamente la società di quei luoghi. Allo spaccio, infatti, si dedicano sempre più di frequente famiglie “comuni”, che da lì traggono una fonte di reddito. Lo spaccio è un’attività economica come altre (una “piccola impresa“), ma molto più lucrativa rispetto alle attività tradizionali. In questo modo le organizzazioni criminali presenti sul territorio, fornitrici della “merce”, hanno quasi inglobato il tessuto socio-economico locale.
Proviamo ad individuare qualche causa per questa situazione. Basta uno sguardo superficiale alla storia della Città Vecchia per concludere che l’economia tradizionale di quel luogo è stata distrutta forse per sempre. Più di cento anni di industrializzazione – sulle sponde del Mar Piccolo (Arsenale della Marina Militare e Cantieri Navali) e non solo (Italsider-Ilva, Shell-Eni, Cementir ecc.) – e un’urbanizzazione del tutto incontrollata (con annessi discariche/scarichi abusivi) hanno prodotto l’alterazione di quell’ambiente naturale, ridimensionando una fonte di reddito fondamentale per la popolazione locale: la pesca. Le condizioni di crescente inquinamento del mare interno sono state denunciate in più occasioni: agli inizi degli anni ’70 gli stessi pescatori furono protagonisti di un’importante mobilitazione; più di recente, gli organi tecnici locali hanno offerto un’analisi scientifica della situazione. È tuttavia significativo che di bonifica ambientale dell’area si sia arrivati a parlare concretamente solo da pochissimo – peraltro senza aver ancora realizzato alcun progetto operativo. Nel frattempo, la portata del comparto ittico si è contratta sensibilmente, insieme alle attività artigianali e di servizio ad esso connesse.
A ciò si aggiunga la mancata realizzazione del risanamento urbanistico del borgo antico. Il quarantesimo anniversario del crollo di Vico Reale – 12 maggio 1975: sei persone morte per il cedimento di una palazzina – è passato quasi sotto silenzio in città. Quell’evento segnò l’avvio della “stagione dell’emergenza”, mettendo da parte il tentativo di programmazione avviato nel 1969 con l’incarico affidato a Franco Blandino per l’elaborazione di un piano particolareggiato per la Città Vecchia (piano approvato dal Consiglio Comunale due anni dopo e premiato nello stesso 1975 come uno dei migliori progetti di risanamento di centro storico in Europa). Allo sfollamento di interi caseggiati pericolanti – e al conseguente trasferimento degli abitanti nelle aree di edilizia popolare ai margini della città – non è mai seguita la ristrutturazione organica dell’area. Ciò ha contribuito a trasformare l’isola in un ghetto. Impenetrabile in molti suoi punti per via delle situazioni di instabilità strutturale ancora esistenti, la Città Vecchia è stata riadattata funzionalmente alle esigenze del mercato della droga.
Le politiche degli ultimi vent’anni non hanno inciso sostanzialmente su questa situazione. Gli interventi urbanistici del progetto Urban hanno riguardato quasi esclusivamente la banchina di via Garibaldi (talvolta con esiti imbarazzanti: si pensi al mercato ittico galleggiante), tralasciando la situazione strutturale dell’interno. Gli esperimenti sociali sono risultati ancor più fallimentari: il centro dell’attività di spaccio individuata dagli investigatori in quest’ultima indagine gravitava proprio attorno a Largo San Gaetano, sede principale del Cantiere Maggese. Questo avrebbe dovuto rappresentare un fulcro di “attivazione sociale” per l’intero quartiere, stando alla retorica dei “Bollenti Spiriti” da cui quell’esperienza ha tratto origine. In realtà, la vita travagliata dello spazio in questione dimostra la limitatezza di fondo di quell’approccio.
Ciò che emerge da queste brevi note è un fatto molto semplice: nelle condizioni socio-economiche e urbanistiche che caratterizzano oggi la Città Vecchia, spacciare è, per i più, un’attività conveniente. Più remunerativa delle attività tradizionali e meno rischiosa (in termini economici) delle vaghe alternative prospettate dal movimento degli attivatori sociali.
C’è chi, di fronte a questo stato di cose, propone qualcosa di simile alla vecchia idea della “Manhattan del Sud” balenata negli anni ’60, in piena ubriacatura da boom economico: la conversione turistica della zona. In questo senso sembra andare lo stesso progetto di risanamento varato di recente dalla Giunta Comunale e all’attenzione del governo proprio in questi giorni. Chiunque abbia visitato località turistiche di una certa portata sa bene che le attività di spaccio sono perfettamente integrate nel tessuto commerciale: il turista cerca anche droga. A quel punto basta spartirsi il controllo del territorio per realizzare proficue “economie di scala”.
Se si intende invece affrontare davvero il problema socio-economico alla base dello spaccio, va assunta una prospettiva ben più radicale. Una seria politica anti-proibizionista è un passaggio necessario (e ormai ineludibile), ma non sufficiente.
Le imprese criminali – ormai protagoniste a pieno titolo del capitalismo contemporaneo – hanno oggi a disposizione un “esercito di riserva” sempre più numeroso, fatto di intere famiglie di disoccupati, di ceti medi e di lavoratori in via di progressivo impoverimento. Una frana verso il “basso”, cui contribuiscono attivamente le politiche di devastazione sistematica dei servizi sociali (dalla scuola al’assistenza degli anziani e dei disabili). A quelle fasce di popolazione declassata, il mercato della droga controllato dalle mafie prospetta la realizzazione del modello sociale dominante: lo spaccio è anch’esso una “micro-impresa” e chi lo esercita può di fatto considerarsi un self made man. La realizzazione dell’interesse privato – primum mobile della società di mercato – trova conferma inconfutabile. Con buona pace dei moralisti, lo spacciatore è un homo oeconomicus che opera secondo le regole del calcolo costi/benefici. Gli si vuol dire qualcosa perché non si è trovato un lavoro “onesto”? Che senso avrebbe questa contestazione ai tempi dello scandalo Lehman Brothers o della mega-truffa Volkswagen? D’altra parte, gli enormi profitti realizzati dalle imprese criminali circolano indisturbati nel libero mercato dei capitali, finanziando svariate attività speculative e produttive.
È il capitalismo, bellezza. E chi si è posto seriamente l’obiettivo di combattere le mafie – da Giovanni Falcone a Pio La Torre – sapeva benissimo che, più che i fatti di sangue, andavano ricostruiti (e fermati) i flussi di denaro. Questa è la sfida da affrontare anche a Taranto. Capire le dinamiche socio-economiche in atto, soprattutto nelle aree più marginali del territorio; saper cogliere le contraddizioni da esse prodotte; agire per provare a scardinarle, attraverso proposte che risultino davvero credibili agli occhi di chi dovrebbe battersi per rivendicarle.
A questo proposito, il tema del lavoro è stato quasi rimosso dai discorsi sulla “lotta all’emarginazione”. Le soluzioni individuate, nella migliore delle ipotesi, restano circoscritte all’invocazione di una vaga presenza dello Stato, per lo più in forma di istituzioni che dovrebbero accrescere il “capitale sociale” degli strati marginali della popolazione attraverso la scolarizzazione, la diffusione del senso civico, persino l'”educazione alla legalità” ecc. Tutte cose sacrosante, ma si rischia di ignorare la base materiale del problema. Se si vuole scardinare un sistema economico, di cui il mercato della droga è parte integrante, ne va immaginato e costruito un altro, fondato su finalità e strutture radicalmente diverse. Fattore di questa trasformazione non può essere lo Stato che abbiamo di fronte, quasi del tutto prono ai grandi interessi (e quindi alla stessa imprenditoria criminale), ma uno Stato di tipo nuovo, che scaturisca dall’organizzazione di chi si trova a subire le conseguenze dello stato di cose presenti. Organizzare vuol dire, anzitutto, stare accanto alle persone che materialmente vivono quella condizione, provare a far emergere una coscienza della stessa, e cercare insieme il modo di cambiarla.
Questa è la sfida che attende tutte le donne e gli uomini che auspicano un cambiamento reale, a Taranto e in tutto il Mezzogiorno. Solo tornando a focalizzare l’attenzione sugli aspetti concreti della sempre più drammatica “questione sociale” quell’auspicio potrà riempirsi di senso.