Ho visto numerosi film e documentari sulla crisi che ufficialmente dal 2007 – in realtà da molto prima – attanaglia l’economia mondiale; una crisi che, al contrario di quanto ci viene raccontato, è ben lungi dall’essere terminata. Ed è da modesto conoscitore di strumenti finanziari complessi e da appassionato dei meccanismi di borsa che intendo commentare il film La Grande Scommessa di Adam McKay, nelle sale a partire dal 7 Gennaio; non certo da improbabile critico cinematografico. Il Lupo di Wall Street del 2013 è un grandissimo film di Martin Scorzese con un sublime Di Caprio nei panni dello spregiudicato broker Jordan Belfort, un film che non avrebbe mai potuto essere premiato dall’Academy americana perché enfatizza i documentati eccessi di molti personaggi di Wall Street ridicolizzando il sistema e lasciandolo letteralmente “senza mutande” di fronte allo spettatore; Capitalism – A Love Story di Michael Moore è una spietata critica del capitalismo americano e continua ad essere, completata dall’insuperato documentario Inside Job, l’analisi televisiva più esaustiva di parte delle reali cause della crisi economica americana e mondiale; La Grande Scommessa è la trasposizione cinematografica di un libro di successo in cui viene raccontata la storia vera degli analisti finanziari e dei broker che, attraverso lo studio dei dati e degli indicatori macroeconomici, riuscirono a prevedere con sufficiente anticipo il crollo del mercato immobiliare americano, pompato da prestiti e mutui concessi anche a disoccupati ed immigrati clandestini (mutui subprime) per un ammontare superiore al 100% del valore degli immobili e con tassi iniziali pari a zero destinati, da contratto, ad aumentare enormemente a partire dal secondo anno di vita del mutuo. Rispetto a Capitalism e a Inside Job il film ha il notevole pregio di non essere un impegnativo docu-film in cui le voci dei protagonisti delle vicende narrate (spesso dall’inflessione piatta come quella che hanno i banchieri quando parlano di miliardi come fossero noccioline) si alternano alla voce fuori campo del narratore. Qui c’è intrattenimento puro, garantito dalle interpretazioni di star cinematografiche affermate e dal ritmo con cui gli eventi si accavallano: con esempi talmente semplici da essere accessibili anche a chi si professa “a digiuno di finanza”, questa pellicola assolve ad una lodevole funzione pedagogica in ambito storico e su specifici prodotti finanziari. E già questo sarebbe motivo sufficiente per vederlo. Ma c’è altro: se si eccettua il broker finanziario di Deutsche Bank, interpretato da un ipervitaminizzato Ryan Gosling tutto testosterone e competizione – l’abusata accoppiata “palestra-trading di borsa” incarna la figura del trader d’assalto che ritroviamo anche in 1 km da Wall Street – tutti gli altri protagonisti sono banchieri d’affari, ex squali della finanza, giovani titolari di start up e genii della matematica finanziaria dalla personalità introversa i quali, chi prima chi dopo, dimostrano di sentire il “peso morale” di aver previsto e, inevitabilmente, sfruttato il grande crollo del mercato dei mutui residenziali, enfatizzandone la caduta attraverso scommesse con gli ormai conosciutissimi CDS (Credit Default Swap), spiegati in maniera chiarissima. Il primo personaggio ad aver previsto il crollo finanziario delle obbligazioni strutturate (CDO e MBS) è, nel 2005, Michael Burry, leggendario gestore di fondo hedge (fondo speculativo di gestione del risparmio che utilizza derivati), il quale , per scommettere al ribasso sulle obbligazioni su mutui ipotecari americani, si farà costruire per primo dalle banche d’affari strumenti derivati ad hoc allora inesistenti ma che oggi sono conosciutissimi: l’interpretazione di questo genio della matematica è affidata ad un Cristian Bale in grande spolvero; capace di incarnare le manie iperprotettive dell’eccentrico genio americano, tanto eclettico negli studi di diverse discipline quanto inadeguato ai rapporti sociali e dal carattere chiuso, Bale ritrae l’ostinazione con cui Burry deciderà di non vendere le posizioni al ribasso aperte, nonostante le obbligazioni subprime mantengano per lungo tempo quotazioni alte anche in presenza di primi notevoli scricchiolii del sistema, procurando una iniziale perdita al suo fondo durata almeno un biennio; alla fine la giustezza delle sue previsioni garantirà al fondo un guadagno finale, a crollo del mercato completato, del 489% ma gli farà perdere la stima e l’amicizia di molte persone e lo indurrà a chiudere il fondo. Altro personaggio problematico è Marc Baum (interpretato da uno Steve Carell da Oscar), trader di Morgan Stanley, che odia profondamente il proprio lavoro ed il “sistema”, poiché lo ha reso talmente insensibile da aver offerto denaro all’amato fratello, poi suicida, quando egli gli chiedeva disperatamente solo aiuto psicologico. Charlie Geller (John Magaro) e Jamie Shipley (Finn Wittrock) sono i due giovani fondatori di una start up che saliranno sul carro dei ribassisti con l’aiuto di un ex-banchiere d’affari convertito alla coltivazione del proprio orto: sarà proprio Ben Rickert (Brad Pitt) a ricordare ai due futuri ricchi giovani che ogni aumento della disoccupazione di un punto percentuale produce 40.000 morti negli States, quindi loro tutti sono essenzialmente dei condor che svolazzano sul corpo indebolito dell’America in attesa di mangiarne la carcassa.
Come si accennava, esiste un robusto filo di unione tra i protagonisti: ognuno di loro sa già bene o maturerà la consapevolezza che ciò che sta facendo contribuirà ad affossare ulteriormente l’economia americana e a gettare nella disperazione milioni di persone; nonostante costoro siano intimamente travagliati dalle implicazioni etiche del proprio lavoro, continueranno a perseguire con tenacia l’obiettivo perché sanno bene che altre persone, nel caso loro desistessero, prenderebbero il loro posto; l’essere parte del sistema e contemporaneamente l’essere contrari ad esso destabilizza l’esistenza di ciascun individuo ed il perché di tutto ciò è sintetizzato dalla risposta alla domanda che il vecchio trader Ben Rickert fornisce ai due giovani ragazzi che ha accolto sotto la propria ala protettiva: «Perché ci hai aiutati?», «Non volevate essere ricchi? Bene, adesso lo siete!» Ma qui non è più il mito della ricchezza e dell’avidità ad essere chiamato in ballo; se nell’antesignano Wall Street, Oliver Stone faceva dire ad un immortale Gordon Gekko- Michael Douglas: È l’avidità che guarirà questo malfunzionante sistema che ha nome America» qui, a distanza di 25 anni, c’è la certezza dell’ineluttabilità che le cose siano destinate ad andare come vanno perché, alla fine, come Marc Baum affermerà, pagano solo i fessi e la gente comune, mentre il Fuld amministratore delegato della Lehman Bros, o un qualsiasi dirigente di una delle società di rating che hanno valutato come altamente affidabili prodotti tossici, o un qualsiasi banchiere non hanno fatto un giorno di prigione e, al massimo, sono stati puniti con multe ridicole in confronto ai soldi rubati. Mentre invece 25 anni prima Gordon Gekko ruba e va in galera, qui il “malfunzionante sistema che ha nome America”, e che prevede la fortuna di pochi e la disgrazia di tanti, ha stravinto; il cancro non è stato estirpato: al contrario, ha infettato tutto. Se ne rende conto Mark Baum, uomo alla disperata ricerca di un riscatto morale attraverso investimenti “etici”, quando, attraverso due dialoghi di una durezza disarmante (e destinati a rimanere almeno nella memoria di chi scrive), si renderà conto che il valore della obbligazioni legate ai mutui sub prime è falsato per volere anche della banca d’affari per cui lavora (Morgan Stanley); la risata sprezzante con cui il gestore di fondi pensione gli racconta di essere in conflitto di interesse tra i suoi clienti (i pensionati che saranno solennemente fregati) e la banca d’affari che gli chiede di comprare i propri prodotti tossici in cambio della commissione, la confessione dell’analista di Standard and Poors – l’agenzia di rating – attraverso cui Baum si rende conto che il sistema è truccato cozzano contro l’unica possibilità finale che questo tribolato personaggio ha di redimersi e “salvarsi” dall’ineluttabilità di essere un trader “vincente”: non chiudere le posizioni, non incassare la vincita miliardaria, recuperando così la dignità di uomo, per non “essere come gli altri” e metabolizzare più serenamente la perdita dell’amato fratello. «Ok, vendi», ordinerà alla fine al suo collaboratore, condannandosi alla maggior ricchezza ed alla infelicità perenne.
Indipendentemente dal fatto che la finanziarizzazione estrema dei processi economici possa essere individuata come causa della grande crisi economica in corso – su questo tanti nostri economisti eterodossi, giustamente, avrebbero molto da ridire – questo film va visto perché è la vera reale prosecuzione del Wall Street di Oliver Stone e ne fornisce la soluzione finale: i nostri antagonisti non ce l’hanno fatta a resistere, hanno scommesso al ribasso – penosa la traduzione italiana del titolo originale – e “contro” la gente; Gordon Gekko, così, non è mai stato in prigione e ha vinto a mani basse!