Il livello dei rapporti di forza tra datore di lavoro e lavoratore è misurabile anche dal tipo di atteggiamenti (ufficiali o meno) che il primo ha nei confronti del secondo: i segnali che, in questi giorni, vengono dal management di Teleperformance Taranto indicano che qualcosa sta velocemente cambiando nell’ambito delle relazioni sindacali, a discapito di ciò che è comunemente definito “clima lavorativo d’azienda”. Ne abbiamo parlato con Andrea Lumino, Segretario CGIL- Slc di Taranto.
Dopo quasi un anno di vertenza sindacale con Teleperformance, le organizzazioni sindacali sono riuscite a spuntare un accordo con la multinazionale francese del call-center. Ci fai un breve resoconto dei termini dell’accordo?
E’ un accordo in assoluta controtendenza rispetto alle richieste aziendali e non solo: l’azienda avrebbe voluto riproporre un accordo “fotocopia” rispetto a quello non ripetibile del 2013, nel quale accettavamo demansionamenti, perdita di livello, di TFR e tredicesima. Invece abbiamo ottenuto nuovamente tutto e abbiamo introdotto il contratto di solidarietà (per nulla scontato) per gestire i picchi di domanda. Però tutto l’accordo firmato al Ministero del Lavoro in data 28 Luglio avrebbe avuto per noi validità se il Governo si fosse impegnato, come ha fatto, a trattare la regolamentazione del settore (punto 9 dell’accordo).
E quale era l’elemento discriminante per la firma dell’accordo?
Non avremmo mai firmato un accordo che prevede comunque sacrifici senza offrire prospettive future ai lavoratori; abbiamo siglato l’accordo quando, finalmente, abbiamo avuto rassicurazioni che la Commissione Lavoro avrebbe licenziato la clausola sociale per i call (come poi ha fatto a fine Settembre) : con questa clausola in caso di cambio d’appalto il lavoratore impiegato presso il call center che perde la commessa deve essere assunto dal call center che vince la commessa con le stesse condizioni contrattuali e retributive e con la clausola della territorialità, cioè deve lavorare in zona, evitando in questo modo di essere sbattuto a lavorare lontano dalla sua residenza a salari più bassi. Si evita il dumping salariale nel settore, insomma.
Quindi il Governo vi è venuto incontro….
In realtà il nostro governo era fuorilegge perché la Direttiva Europea 23/2001 obbligava l’Italia a impedire le commesse al massimo ribasso (praticate anche da grandi aziende nazionali a partecipazione statale); con tutto ciò abbiamo firmato l’accordo al quarto incontro quando il Governo, buon ultimo nell’Unione Europea, si è allineato agli altri paesi della Comunità Europea.
E adesso che succede?
Uno degli effetti più pittoreschi della clausola sociale è che Confindustria si è spaccata: da un lato abbiamo Assocontact, l’associazione dei grossi call center (Teleperformance in primis), che sono favorevoli alla clausola sociale perché i committenti non hanno più convenienza a cambiare operatore dal momento che non usufruiscono più di sgravi fiscali; dall’altra proprio l’associazione dei grandi committenti della telefonia Assotel (Telecom, Vodafone, TIM, H3G), che hanno scatenato le lobbies in Parlamento per non far passare la clausola sociale, perché per loro non c’è più la possibilità di aggiudicarsi commesse a prezzi bassissimi [che, in un settore, ad alta intensità di lavoro, vuol dire essenzialmente fare profitti costringendo i call center ad abbassare i salari, ndr]. Siamo stati a Roma in questi giorni perché temiamo che il Governo, pressato da interessi aziendali così grossi, torni indietro: per noi questa è la madre di tutte le battaglie ed i lavoratori devono sapere che la guerra non si vince se perdiamo sulla clausola sociale. Credo che, su questo punto, a Taranto abbiamo fatto e continueremo a fare la nostra parte.
A livello tarantino, che aria si respira in Teleperformance in questo momento?
Aria mefitica: l’azienda sta esercitando una pressione a nostro parere ingiustificata sui lavoratori sotto diversi punti di vista. Per esempio, parlando di policy sulla sicurezza, partendo dal giusto presupposto di voler tutelare i dati sensibili che ogni operatore gestisce, l’azienda vuole vietare ai dipendenti di portare giacche o borse in postazione: naturalmente ci siamo opposti chiedendo alla Direzione Provinciale del Lavoro di fare una verifica, perché neanche una multinazionale come Tp può applicare norme che siano in contrasto con le leggi del paese in cui opera: se in altri paesi a Tp è consentito applicare certi regolamenti, in Italia non può farlo.
So che hai altro da dirci.
Proprio oggi [22/10/2015, ndr], sono state consegnate un centinaio di lettere ad altrettanti lavoratori [che invitiamo caldamente i lettori a leggere cliccando sulle figure, ndr] in cui l’azienda lamenta “scarsa produttività” e alle quali la CGIL ha risposto immediatamente con un Comunicato nel quale rigettiamo gli addebiti nella forma e nella sostanza perché qualcuno deve spiegarci quali sono i criteri per stabilire la produttività (non concordati con noi); invece di pensare alle sciocchezze l’azienda dovrebbe organizzare meglio il lavoro, offrire una prospettiva meritocratica per gli avanzamenti di carriera (non è sempre così e ciò determina un danno anche perché gli incapaci non sono in grado di organizzare altri lavoratori più meritori e ciò ha rifessi sul rendimento globale dell’azienda).
Ci muoveremo per capire se possiamo intraprendere azioni legali.
Hai in mente una motivazione convincente che spieghi la tempistica e il ritmo sempre più incalzante di queste iniziative aziendali?
A livello generale in questo paese qualcuno ha allargato le maglie della rete di tutela dei diritti dei lavoratori e le aziende utilizzano la clava che hanno in mano. A livello aziendale, ma questa è un’opinione strettamente personale, l’azienda cerca di recuperare sui costi del personale quei risparmi che aveva previsto di spuntare sui rinnovi contrattuali in sede vertenziale e che, invece, non ha ottenuto: se così fosse noi saremo acerrimi nemici da combattere.