In questa relazione cercherò di dare non solo degli elementi conoscitivi per inquadrare il problema, ma anche e soprattutto una prospettiva politica come possibile chiave per affrontare e provare a risolvere la “questione Ilva”.
Ogni volta che penso a Taranto e al suo rapporto con la fabbrica, mi tornano in mente i versi di una canzone di Springsteen.
Adesso, signor padrone, tu mi dici che il mondo è cambiato:
adesso che ti ho fatto diventare tanto ricco
tanto ricco da scordarti il mio nome.
Così inveisce l’ex operaio siderurgico di Youngstown di fronte alle macerie degli altoforni, nell’omonima canzone di Bruce Springsteen. Youngstown, oggi decadente cittadina dell’Ohio, è stata a lungo una delle più importanti città industriali d’America. Il minerale di ferro era la fonte della sua prosperità, e la siderurgia il settore in assoluto più fiorente dell’economia locale. Oggi, dopo la pesante deindustrializzazione iniziata negli anni ’80, Youngstown è lo spettro di se stessa. Nessuna grande fondazione privata ha finanziato la sua riconversione, come è successo nella vicina Pittsburgh. Youngstown è l’epicentro di quella che gli americani chiamano “rust belt“, la “cintura della ruggine”: un’ampia fascia di territorio in cui i vecchi impianti industriali sono lasciati a marcire, erosi dal tempo, e intere città si spopolano, lasciando vuoti crescenti nel tessuto urbano e sociale[1].
Youngstown è la prefigurazione di quello che potrebbe essere Taranto fra non molto, se non si porrà fine alla deriva a cui da troppo tempo sono abbandonate sia la fabbrica che la città.
La storia di Youngstown mostra però anche un altro aspetto comune a tante realtà industriali: il mercato crea problemi che non è in grado di risolvere.
Diamo un’occhiata alla nostra storia, che dimostra in pieno questa tesi. Il siderurgico sorge negli anni ’60, su impulso del poderoso boom economico che il paese vive in quella fase. Lo stabilimento è creato da un’impresa pubblica, ma opera in un’ottica di mercato: le enormi proporzioni che esso assume sono imposte da criteri di produttività. I mega-impianti giapponesi sono il modello a cui ci si ispira con il “raddoppio”, realizzato nei primi anni ’70. A conclusione dei lavori, quella di Taranto si presenta come la più grande acciaieria d’Europa. La durissima crisi degli anni ’80 mette in ginocchio la siderurgia in tutti i paesi industrializzati. In Italia questa fase si conclude, alla metà degli anni ’90, con la chiusura di alcuni stabilimenti e la definitiva privatizzazione della siderurgia pubblica: Taranto passa nelle mani dei Riva[2].
Intanto i tempi sono cambiati: il “modello Thatcher” ha vinto un po’ dappertutto. A Taranto prende forma una rottura dei rapporti e delle mediazioni fra fabbrica e territorio. Ai Riva viene concessa piena padronanza sulle attività industriali e sull’organizzazione del lavoro. Si susseguono casi clamorosi di mobbing (si pensi alla vicenda della “palazzina Laf”), un radicale turn over della manodopera – che di fatto cancella la tradizione sindacale sedimentata fino a quel momento -, la creazione di una struttura di potere basata sull’accentramento del comando e sulla discrezionalità del suo esercizio.
In quegli anni il mercato tira e, nel frattempo, la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento di Genova offre l’occasione di concentrare a Taranto tutta la produzione di acciaio dell’Ilva. Lo sfruttamento quasi completo degli impianti consente di realizzare livelli di produzione mai raggiunti: nel 2006 si toccano i 10 milioni di t. Ne derivano profitti stellari: prima della crisi, Ilva fa registrare utili di 800/900 milioni di Euro l’anno. Tutto questo a scapito della sicurezza degli operai e della salute di tutti. Il modello è chiaro: da una parte, i profitti dei Riva; dall’altra, lo sfruttamento del lavoro e l’avvelenamento dell’ambiente circostante. In mezzo, l’acquiescenza dei governi nazionali nei confronti della proprietà.
Mentre in altri paesi si adeguano gli impianti alle norme ambientali (si vedano i casi di Duisburg in Germania, o di Linz in Austria), in Italia l’Ilva gode di una sostanziale intangibilità. I vari “protocolli d’intesa” siglati con le istituzioni locali nei primi anni 2000 vengono puntualmente disattesi. Il “decreto di ferragosto” del 2010 rimanda l’applicazione dei limiti sul benzo(a)pirene, mentre negli stessi mesi i Riva entrano nella cordata Alitalia promossa dal governo Berlusconi – quella dei cosiddetti “capitani coraggiosi”. Infine, il rilascio dell’Aia nell’estate 2011: un documento che viola apertamente i vincoli imposti dalla legislazione comunitaria, al punto che lo stesso Ministro dell’Ambiente del governo Monti, Corrado Clini, nella primavera 2012, è costretto a chiederne la revisione – alla luce delle evidenze contenute nella perizia epidemiologica ordinata dal Tribunale di Taranto.
Questo modello perfetto di neoliberismo, in cui i governi sono del tutto schiacciati sugli interessi dell’impresa, viene interrotto solo dall’intervento della Magistratura, nel luglio 2012. Da quel momento si apre, per l’Ilva e per Taranto, una fase di sostanziale stallo che si protrae fino ai giorni nostri.
Vediamo cosa è successo dal sequestro ad oggi. La famiglia Riva è fuorigioco, ma i governi che si susseguono dal 2012 non riescono a individuare una soluzione definitiva alla crisi ambientale e industriale. Nell’autunno 2012 viene varata una nuova Aia, con misure più restrittive, ma intanto si depotenzia la Valutazione del Danno Sanitario, lo strumento introdotto per la prima volta in Italia dalla Regione Puglia per quantificare l’impatto delle attività inquinanti sulla salute della popolazione. La realizzazione dell’Aia, nella primavera 2013, viene affidata a una struttura commissariale, che assume la gestione dell’azienda[3].
Un anno più tardi il piano industriale curato da Enrico Bondi viene di fatto cassato dal governo Renzi. Quel piano prospettava il ridimensionamento (e il graduale superamento) delle fasi più inquinanti del ciclo, agglomerato e cokeria, attraverso l’adozione del cosiddetto “preridotto”. La dotazione finanziaria prevista dal “Piano Bondi” era circoscritta a 1,8 miliardi, pari alla cifra sequestrata e poi dissequestrata all’azienda: un volume di risorse comunque insufficiente a garantire alla società stabilità finanziaria in presenza della mole di investimenti prospettata dal Piano stesso.
Di seguito, il nuovo commissario, Piero Gnudi, intavola trattative con operatori nazionali ed esteri per trovare un possibile acquirente per Ilva, ma tutto si inabissa dopo poco. All’inizio del 2015 si pone la società in amministrazione controllata, destinando alla liquidazione i debiti contratti nel frattempo, e prospettando la creazione di una newco. E’ di pochi giorni fa la decisione con cui il governo si impegna a istituire un “fondo di garanzia” di 1,2 miliardi di Euro a copertura della cifra sequestrata dal Tribunale di Milano alla famiglia Riva – risorse che saranno trasferite alla newco per la realizzazione del risanamento ambientale. Se 1,8 miliardi erano insufficienti, lascio a voi valutare l’adeguatezza degli 1,2 miliardi prospettati oggi dal governo.
Peraltro, anche se Ispra certificasse che è stato realizzato l’80% delle prescrizioni Aia, come stabilito dal decreto di gennaio, mancherebbero ancora all’appello opere di primaria importanza. Su tutte, l’ammodernamento delle cokerie – l’impianto che da solo genera la quasi totalità degli Ipa dispersi dall’Ilva in atmosfera. Si tratta di un’opera costosa e complessa, che assorbirà buona parte delle risorse messe a disposizione dalla newco. E’ lecito quindi domandarsi: chi metterà le ulteriori risorse necessarie alla realizzazione degli altri investimenti? Si farà ricorso nuovamente a prestiti con le banche? L’ulteriore crescita del volume dei debiti rischia tuttavia di esporre la “nuova Ilva” a una situazione di grave instabilità finanziaria, quale quella che ci si vuole lasciare alle spalle.
Inoltre, non può sfuggire l’allarme lanciato da Arpa Puglia nel documento di Valutazione del Danno Sanitario. Anche attuando tutte le prescrizioni contenute nell’Aia 2012, continuerebbe a sussistere una situazione di pericolo significativa per la salute degli abitanti di Taranto. Il rifiuto del governo di tenere conto della VDS, espone quindi a un possibile paradosso: dopo aver investito un volume immane di risorse, Ilva rischia di trovarsi punto e accapo, con un’attività insostenibile sul piano sanitario ed ambientale.
D’altra parte, la stessa situazione industriale di Ilva è segnata da evidente degrado. Ai commissari che si sono succeduti va certo riconosciuta quanto meno l’intenzione di superare il “modello Riva”, basato su un mix di autoritarismo e paternalismo – tentativo contrastato da una parte dei quadri di stabilimento. Tuttavia ancora non si è giunti alla definizione di un nuovo quadro manageriale, portatore di una cultura d’impresa profondamente diversa da quella del passato.
Evidentemente, questo quadro non potrà essere definito fintanto che non si garantirà un assetto societario stabile all’azienda. Questo è il punto centrale del problema. Al di là dell’adeguatezza delle risorse, c’è un punto critico fondamentale nell’operazione avviata dal governo: cos’è la newco? Si tratta solo di una soluzione provvisoria, finalizzata alla realizzazione degli investimenti ambientali, in attesa di una futura cessione dell’azienda ad acquirenti privati? O stiamo parlando del nuovo assetto di Ilva?
Evidentemente la “soluzione provvisoria” presenta delle criticità di notevole portata.
1) Sul piano manageriale, essa rappresenta un ostacolo alla creazione di un nuovo gruppo dirigente: chi sarebbe disposto ad assumersi responsabilità importanti sapendo che di lì a poco il suo lavoro potrà essere rimesso in discussione per l’ennesimo cambio di proprietà?
2) Sul piano industriale, si rischia di pregiudicare l’efficacia della strategia di rilancio dell’azienda: in un settore complesso come quello siderurgico, i piani industriali hanno bisogno di periodi relativamente ampi per dare frutti: una discontinuità al vertice potrebbe pregiudicare la continuità necessaria alla buona riuscita dell’operazione.
La questione è tanto più delicata, dal momento che la situazione del mercato siderurgico è oggi quanto mai turbolenta. Alle tensioni introdotte dalla crisi e dall’accresciuta competizione interna al mercato europeo – che ha visto i produttori italiani subire l’offensiva dei concorrenti esteri, tedeschi in primis -, da quest’anno si è aggiunta un’esasperata concorrenza dei produttori cinesi. Ne sta derivando un crollo generalizzato dei prezzi dei beni siderurgici; si torna a parlare di dismissioni di impianti; addirittura si prospetta la possibilità di elevare dazi contro le importazioni dall’Estremo Oriente nell’Unione Europea.
In questo contesto segnato da incognite drammatiche, non si può più credere di affrontare la questione Ilva con rimedi di corto respiro. Per realizzare fino in fondo un piano di risanamento ambientale che risolva una volta per tutte il problema dell’inquinamento, per rilanciare su nuove basi la produzione, per salvaguardare i posti di lavoro, è necessario che Ilva abbia un assetto finalmente stabile. L’ingresso nella newco di Cassa Depositi e Prestiti non può essere momentanea, né assumere la forma della mera “garanzia finanziaria”: Ilva ha bisogno di un quadro proprietario certo, e CDP può esserne lo strumento; in caso contrario, il governo deve intervenire direttamente, nazionalizzando l’azienda.
Ma per trasformare Ilva in un’azienda attenta non solo al risultato economico ma anche all’impatto sociale e ambientale della sua attività, è necessario che cittadini attivi, tecnici delle agenzie pubbliche, lavoratori siano messi in condizione di partecipare al controllo dell’attività dell’azienda. Se il modello Riva stabiliva la netta separazione fra fabbrica e territorio, un’azienda rinnovata non può che stabilire un rapporto costante e positivo con il contesto circostante.
Definito in questi termini il quadro gestionale, è necessario aggiornare la strategia di intervento sulle criticità ambientali. L’allarme lanciato da Arpa Puglia nella VDS non può essere evaso. Se l’Aia è insufficiente, è necessario pensare a soluzioni tecniche più avanzate. Va valutata l’ipotesi del preridotto, lanciata a suo tempo da Bondi, o altre opzioni che consentano di ridurre drasticamente l’impatto ambientale e sanitario della fabbrica. Questa sfida è in assoluto la più importante, e in nessun modo può essere lasciata in sospeso.
Occorre però focalizzare l’attenzione anche su un punto di cui si parla molto poco: ancora non sappiamo quale sarà l’impatto del risanamento ambientale sui livelli occupazionali. Non è accettabile una soluzione che, risolvendo il problema ambientale, ne crei un altro di natura sociale, aggravando una tendenza già di per sé drammatica – ricordiamo che Taranto negli ultimi tre anni ha perso qualcosa come 10 mila posti di lavoro: è come se un’intera Ilva avesse già chiuso. Il dilemma “Salute/Lavoro” va reciso definitivamente. Nessun posto di lavoro può essere perso. Da questo punto di vista, è necessario immaginare nuovi modi di impiego della manodopera, fino a prevedere una riduzione strutturale dell’orario di lavoro (a parità di salario). Non si tratta di una rivendicazione “massimalista”, ma di una sfida che alcuni fra i paesi più avanzati del mondo – si pensi a quelli del Nord Europa – stanno cercando di affrontare concretamente.
Proprietà pubblica, rinnovamento del management e della cultura d’impresa, partecipazione delle energie locali, innovazioni tecniche profonde, riduzione dell’orario di lavoro: questo insieme di misure può dare nuovo slancio a Ilva.
Accanto a questo, si pone l’urgenza di ulteriori interventi, che rompano la dipendenza del territorio dalle grandi industrie.
Pochi giorni fa si è avuta la sottoscrizione del Contratto Istituzionale di Sviluppo fra governo ed enti locali: si tratta di misure importanti, ma insufficienti. Gli investimenti prospettati non presuppongono una visione d’insieme e una strategia di sviluppo organica: il rischio è che, ultimati i lavori di realizzazione delle opere promesse (porto, ospedale, bonifica, risanamento di Città Vecchia e Tamburi), tutto torni come prima – peggio di prima. Taranto ha bisogno di un nuovo motore di sviluppo, che punti a creare un’economia diversificata. Anche in questo caso, un nuovo intervento pubblico è imprescindibile.
In primo luogo, è necessaria una politica che favorisca la crescita dimensionale e qualitativa del tessuto della piccola e media impresa locale. In un’economia dell’innovazione non possiamo più permetterci attività che vivano di soli appalti. Le aziende del territorio vanno poste in rapporto costante e costruttivo con i centri di formazione e di ricerca presenti nell’area. Da questo punto di vista, la bonifica potrebbe rappresentare un’occasione imperdibile.
In secondo luogo, non è più rimandabile una seria politica culturale che impieghi le tante energie locali per sviluppare le potenzialità del territorio. La cultura non può essere lasciata al volontariato – o addirittura all’improvvisazione -, come spesso accade. Taranto ha bisogno, in prima istanza, di presidi socio-culturali che contribuiscano a ricucire un contesto sempre più spappolato. Allo stesso tempo, è necessaria una seria strategia di promozione turistica, fondata sulla valorizzazione delle testimonianze lasciate dalla nostra storia millenaria e sull’impiego di personale qualificato. Il restauro conservativo della Città Vecchia, la conversione in sito di archeologia industriale dell’Arsenale, il ripristino di Palazzo degli Uffici come contenitore culturale (fra le altre cose, per una pinacoteca comunale), conferirebbero alla nostra città una capacità attrattiva che nessun brand spuntato dal nulla potrebbe garantirle.
Si tratta di prospettive ambiziose, che presuppongono soprattutto classi dirigenti capaci e una chiara visione politica. Per dirla con un grande economista del passato, va messa in discussione “la nostra obsoleta mentalità di mercato”. E’ falso che non ci sono risorse per realizzare investimenti pubblici necessari allo sviluppo civile del paese. Le risorse sono nei conti, spesso nascosti al fisco, dei grandi speculatori che si sono arricchiti – e continuano ad arricchirsi – a scapito del benessere generale. Ma una nuova classe dirigente non si improvvisa; si costruisce pazientemente attraverso il confronto continuo delle capacità e delle competenze di ognuno con i problemi che la realtà pone. E’ dovere di noi tutti dare vita a un percorso collettivo che a Taranto, in Italia, in Europa, ponga le basi per una società più giusta, per una vita più felice.
Ancora una volta, i versi di Springsteen sembrano descrivere la Taranto di oggi.
i ragazzi all’angolo
come foglie disperse
le finestre sbarrate
le strade vuote
mentre mio fratello
cade in ginocchio
è la mia città di rovine
C’è un’alternativa a questa desolazione? Forse sì: è nell’invocazione con cui si chiude la canzone.
“Come on, rise up!”
“Avanti, risolleviamoci!”
* Intervento tenuto al dibattito “Ilva. Salute e Lavoro: una sfida da vincere”, a cura del Gruppo parlamentare GUE/NGL e della Federazione di Taranto del Partito della Rifondazione Comunista. Taranto, 4/11/2015
[1] Sulla situazione di Youngstwon, v. A. Coppola, Apocalypse Town, Roma-Bari 2012
[2] Per un inquadramento storico della vicenda di Taranto, e dell’evoluzione generale della siderurgia pubblica v. Salvatore Romeo, Il IV centro siderurgico fra politiche di sviluppo e strategie industriali (1956-60), in “Imprese e Storia”, n. 41-42, Milano 2011; S. Romeo, La siderurgia pubblica italiana nel Mercato Comune Europeo (1956-1995), tesi di dottorato, Università di Verona 2014; Ruggiero Ranieri e S. Romeo, La siderurgia IRI dal Piano Sinigaglia alla privatizzazione in “Storia dell’IRI. Vol. 5 – Contributi”, Roma-Bari 2015.
[3] Sul commissariamento v. S. Romeo, A Taranto l’Ilva commissariata, in “Lo Straniero”, anno XVII, n. 158/159, agosto/settembre 2013.