Parte I: Ribellione
La sconfitta di Pirro aprì la strada a Roma per la definitiva conquista del territorio italico e l’espansione della propria egemonia anche nelle isole adiacenti alla penisola italica. Nel 218 a.C., dopo 54 anni dalla sconfitta di Pirro, Roma stava per affrontare la più difficile delle sfide. Negli anni successivi alla vittoria contro Taranto, i romani si ritrovarono a fronteggiare l’altra superpotenza del Mediterraneo: Cartagine. I punici furono alleati con Roma per un breve periodo di tempo, aiutandosi l’un l’altro contro il re dell’Epiro, loro nemico comune. Negli anni seguenti, la tensione fra le due potenze aumentò di anno in anno, fino a quando nel 265 a.C. i romani non intervennero in Sicilia in soccorso ai Mamertini (originari della Campania, assoldati come truppe mercenarie dai siracusani ed insediatisi in Sicilia). Dopo 23 anni di guerra, Roma riuscì ad ottenere il controllo della Sicilia (tranne Siracusa), della Sardegna e della Corsica e, cosa più importante, ridimensionò la flotta cartaginese, indebolendo la loro influenza nel Mediterraneo.
Cartagine non riuscì a riprendersi dalla sconfitta subita, lasciando che scoppiassero insurrezioni sia in madrepatria sia nei possedimenti in Iberia (Spagna). Negli anni del conflitto iberico, un giovane guerriero iniziava ad innalzarsi tra i soldati punici: egli era figlio di Amilcare Barca, grande generale cartaginese e veterano della guerra in Sicilia, in quale al suo stesso figlio, narravano le leggende, aveva fatto giurare odio eterno contro la nemica Roma. Il nome del ragazzo divenne ben presto l’incubo di tutti i romani: Annibale. Diventato comandante delle forze di occupazione in Iberia, Annibale riuscì ben presto ad assoggettare i territori nemici, ma la sua voglia di rivalsa contro i romani lo portò ad assediare e conquistare la città di Sagunto, protettorato di Roma. Il senato romano reagì all’attacco di Annibale mandando una delegazione a Cartagine, chiedendo il ritiro delle truppe e la consegna del condottiero, condizioni che furono rifiutate dal governo punico.
Nel 218 a.C. Roma si preparò a combattere all’interno dei propri territori contro il temibile Annibale. Il generale cartaginese condusse il suo esercito, munito anche di elefanti, con una estenuante marcia, a valicare le Alpi ed entrare così in Italia. Nei successivi due anni, i cartaginesi devastarono il territorio italico e si allearono con tutti quei popoli autoctoni che erano stanchi di vivere sotto il vessillo romano. Nel 216 a.C. l’esercito romano si riorganizzò e si preparò ad affrontare gli invasori nei pressi di Canne in Apulia. Qui le doti militari di Annibale lo portarono ad una sensazionale vittoria che mise in crisi tutta la popolazione romana, che intravedeva nelle varie vittorie del condottiero la possibile distruzione dell’Urbe. Riprendendo le parole di Maarbale, generale cartaginese, Annibale sapeva come ottenere una vittoria ma non come sfruttarla: infatti, anche dopo le varie insistenze dei suoi compagni, Annibale non sferrò mai l’attacco decisivo contro Roma, in quanto sapeva che l’egemonia romana era ancora troppo forte in Italia e poteva radunare facilmente un esercito, cosa a lui difficile in quanto era diviso dalla sua patria dal Mediterraneo e doveva per questo ottenere il controllo di un valido porto dove i rinforzi sarebbero potuti sbarcare.
Intanto, a Roma la paura regnava sovrana; il senato riusciva ancora a mantenere il controllo della situazione, ma le varie sconfitte demoralizzavano giorno dopo giorno il popolo. In un giorno del 212 a.C., il senato accolse un “ambasciatore” tarantino di nome Filea che implorava la liberazione gli ostaggi, suoi concittadini, detenuti nel tempio della Vittoria come segno di amicizia fra le due ex nemiche, ma i senatori rifiutarono. Durante la notte, dopo aver corrotto le guardie, Filea riuscì a fuggire con i prigionieri e ad uscire dalle mura urbiche. Purtroppo i romani riuscirono a catturarli nei pressi di Terracina, condannati a morte per tradimento dal senato, trafitti dalle spade e buttati giù dalla Rupe Tarpea.
La notizia provocò a Taranto reazioni contrastanti. Da tempo gli animi di una parte della popolazione erano animati da idee di rivalsa nei confronti degli occupanti romani, ma la parte aristocratica, che con Roma aveva ormai rapporti ben saldi, era contraria ad ogni azione rivoltosa. Annibale, dopo Canne, si acquartierò nei pressi di Taranto, sperando che la popolazione insorgesse e gli aprisse le porte della città, ma ciò non avvenne. Le cose però erano destinate a cambiare dopo gli avvenimenti alla Rupe Tarpea. I giovani cittadini tarantini, alcuni appartenenti a famiglie benestanti, si unirono e organizzarono la rivolta contro gli invasori. Le fonti storiche ricordano alcuni di questi ribelli: Filemeno, Nicone e Tragisco, forse i capi o i membri più importanti della ribellione. Questi ultimi riuscirono ad uscire dalla città con il pretesto di lunghe battute di caccia, corrompendo le guardie e raggiungendo così l’accampamento di Annibale, in quel momento situato nell’area di Ugento. Il generale cartaginese accolse favorevolmente le richieste di aiuto da parte dei tarantini, vedendone la possibilità di utilizzare il grande porto di Taranto come approdo di rifornimenti provenienti dalla lontana Cartagine.
Una notte, i giovani tarantini tornarono dalla “caccia” e bussarono alla solita porta che utilizzavano per uscire e rientrare nella città. Le guardie aprirono con noncuranza, ormai abituati alle continue uscite di quei cittadini, che prontamente assalirono i soldati e si impadronirono del controllo dell’accesso. Soldati scelti dell’esercito cartaginese entrarono guidati dai tarantini e condotti verso la ben più grande porta d’entrata nominata Porta Temenide (probabilmente situata nella zona di Cimino). Una volta uccise le guardie, Annibale e il grosso del suo esercito entrarono a Taranto. L’armata percorse le vie che attraversavano la grande necropoli urbana, della quale il condottiero poté ammirare gli innumerevoli monumenti. Una volta arrivato presso le abitazioni, l’esercito si divise in tre gruppi e puntò verso il cuore della città. In quel momento il governatore romano della città, Marco Livio Macato, riposava nel suo palazzo dopo aver partecipato ad un banchetto ed esagerato con il vino, ma una guardia entrò nella stanza da letto svegliandolo di soprassalto e annunziandogli che Annibale era a Taranto. Tra le strade clangori di spade e grida di dolore riecheggiavano e terrorizzavano la popolazione. I romani, inferiori numericamente, non riuscirono a fermare l’avanzata cartaginese e si ritirarono in massa dentro le mura dell’Acropoli, inseguiti dagli assalitori. Marco Livio riuscì a scappare via mare e ad entrare nella rocca.
La mattina seguente, i tarantini scesero per le strade e osservarono i numerosi cadaveri dei romani, a cui i soldati e mercenari di Annibale depredarono ogni avere indossato. I ribelli incitavano la popolazione con parole di libertà e li incoraggiavano a fidarsi di quello straniero che era giunto finalmente a liberarli. Annibale convocò tutti i cittadini nell’agorà, ai quali promise di ridare a Taranto la libertà tolta e che le ultime resistenze romane sarebbero state vinte. Udendo ciò, la popolazione accolse favorevolmente le parole del punico che, congedandoli, li esortò a scrivere sulle porte delle loro abitazioni “di tarantino”, in modo che esse non venissero saccheggiate dai suoi uomini.
Annibale riuscì istantaneamente, anche grazie alle sue doti carismatiche, a volgere verso di sé il favore popolare, ma sapeva benissimo che alcune famiglie aristocratiche si erano rifugiate con i romani all’interno dell’acropoli, le cui mura gli si ponevano innanzi minacciose. Il loro attraversamento non sarebbe stato facile e i romani questa volta sarebbero stati preparati e pronti ad ogni tipo di resistenza.
CONTINUA
PS. La storia di Annibale a Taranto è molto lunga e fatta di numerosi eventi, per questo motivo l’articolo sarà diviso in tre parti: ribellione, assedio, caduta.
BIBLIOGRAFIA
Polibio, Le storie.
Tito Livio, Ab urbe condita.