In un precedente intervento abbiamo formulato un’ipotesi, e proposto un possibile campo d’indagine: è ipotizzabile che l’indubbio potenziale sovversivo presente nelle rivendicazioni intorno al tema della qualità dell’ambiente, più che represso e/o ostacolato dai dispositivi di potere, sia allo stesso tempo accolto e governato, incoraggiato e disciplinato dai/nei luoghi del potere stesso, a condizione che lo stesso si doti di dispositivi retorici che lo rendano compatibile con la norma del mercato e del profitto?
In questo secondo intervento proponiamo una prima parzialissima ricognizione alla ricerca di tendenze, retoriche e punti di vista, egemoni nel magma della galassia ambientalista, che limano, emendano, modificano il suo potenziale di trasformazione, insistendo in particolare intorno a tre parole che, tra le tante, contribuiscono a ricostruire complessivamente l’ordine del discorso. Ognuna di queste parole meriterebbe trattazioni monotematiche, e tanti altri termini e dispositivi retorici dovrebbero essere analizzati collettivamente, e disarticolati. Si rimanda, in questo senso, ad un percorso a venire di autovalutazione – con finalità di autodiagnosi e autotutela – in vista della manifestazione del 19, provando a fare in modo che quella data sia, dal punto di vista delle prese di parola, dei punti di vista e delle rivendicazioni politiche, assolutamente articolata e molteplice. Si precisa, inoltre, che le annotazioni che seguono non sono imputabili alla totalità delle prese di posizione ambientaliste, che al contrario molto spesso sono eterogenee e divergenti tra loro. Allo stesso tempo, però, per diffusione e pervasività, finiscono con tutta evidenza per infestare complessivamente il campo politico organizzato intorno alla difesa dell’ambiente.
Infine, le riflessioni che seguono, formulate con riferimento all’ambientalismo come potere costituente, possono risultare utili anche per analizzare il potere costituito, anche con riferimento alle amministrazioni locali, per quanto l’evidente disaffezione complessiva nei confronti, per esempio, del centrosinistra ionico, certificata dalla scarsa partecipazione delle cittadine e dei i cittadini di Taranto alle ultime primarie, evidenzia come probabilmente siamo già proiettati in una fase post Stefàno, oltre che ovviamente post Vendola, e dovremmo iniziare a dotarci di strumenti di inchiesta e di intervento politico per capire ed intervenire nei nuovi scenari che si aprono davanti.
Interclassismo. Nel complesso, la risultante delle prese di posizione ambientaliste, lungi dal considerare la società strutturalmente divisa tra sfruttatori e sfruttati, finiscono con frequenza per rappresentare una situazione nella quale, in fin dei conti, saremmo tutti sulla stessa barca (inquinata). Un ritratto della società di questo tipo, oltre che evidentemente errato, non può che favorire gli interessi degli uni (gli imprenditori), a scapito degli altri (disoccupati, precari, studenti, neet, ecc.), in particolar modo quando, nel progettare ipotesi di sviluppo verde per la città, la tutela degli interessi d’impresa assume un ruolo d’assoluta centralità (senza incrociare alcuna problematizzazione oltre il richiamo al green), e le rivendicazioni in termini di welfare, diritto al reddito, accessibilità ai saperi, ecc (in linea invece con le esigenze dei ceti subalterni) risultano assolutamente marginali quando non completamente assenti.
Territorio. Anche col tema del territorio, la retorica dominante ambientalista ha un rapporto per lo meno ambivalente. Nella costruzione di una mobilitazione efficace, è ovviamente necessario fare i conti, in maniera approfondita, col qui ed ora del contesto nel quale si opera. Allo stesso tempo, un rapporto identitario col proprio territorio, finisce per depotenziare i possibili percorsi di connessione tra lotte nate in contesti diversi. In questo senso, facciamo fatica a leggere ciò che avviene a Taranto come gli effetti devastanti di un paradigma globale. Più frequentemente, ci autocommiseriamo descrivendo ciò che avviene da queste parti come eccezione rispetto ad un sistema mondo tendenzialmente caratterizzato da una razionalità complessiva efficace, accogliente, auspicabile. In aggiunta, a testimonianza delle problematicità della relazione instaurata con l’identità/territorio, si pensi alla mancanza di una pur minima problematizzazione intorno alle categorie, tutt’altro che neutre e pacificate, di cultura e turismo, presentate come automatiche panacee per tutti i mali locali. Si rimanda, anche con riferimento alla tematica introdotta, alle fondamentali riflessioni di Stefania Castellana.
Unidirezionalità. Proseguendo, un’altra delle caratteristiche dominanti del discorso ambientalista è collegata alla sua portata totalizzante, unicamente schiacciata intorno al tema dell’inquinamento. Si dirà: è normale che sia così, per definizione un movimento che si descrive come ambientalista non può che avere queste caratteristiche! In realtà, con la scelta di una significativa parte di questa variegata galassia di candidarsi, alla ultime elezioni comunali, per governare la città, si è contemporaneamente assunta la prospettiva di rappresentare la totalità della volontà generale cittadina. In aggiunta, una diffusa retorica che accompagna di frequente le prese di posizioni ambientaliste finisce per etichettare come fuorvianti e/o fuori tema rispetto al dramma Taranto qualsiasi presa di posizione che metta luce le altre forme di sfruttamento che, in aggiunta a quello ambientale, compromettono la qualità della vita, con particolare riferimento ai ceti subalterni.
In ultimo, si propone un’annotazione di stile, affrontando una tematica decisamente delicata. Il linguaggio con il quale mediamente descriviamo il dramma Taranto è, appunto, quello della tragedia, della sofferenza, della morte. Il motivo è evidente: è indubbio che le logiche del profitto e del mercato abbiano distribuito, sotto forma di mortale inquinamento e alienante lavoro, una dose pervasiva di limitazione/sottrazione della qualità della vita così penetrante da inquietare gli animi e, quindi, anche i linguaggi. Occorre, però, provare a riflettere sul ruolo che gioca la necrofilia lessicale nella quale spesso induciamo. Occorre farlo perché probabilmente questa stessa tristezza diffusa, che accompagna anche buona parte dell’attivismo ambientale, è una doppia punizione alla quale siamo sottoposti – oltre la pena, la colpa- e probabilmente anch’essa è un efficace strumento di governo delle condotte, indirizzandole verso forme collettive di autocommiserazione, passività, triste rassegnazione. Vale, in definitiva, in monito di Foucault:
Non credere che occorra essere tristi per essere militanti, per quanto sia abominevole ciò che si combatte. E’ la connessione del desiderio con la realtà (e non la sua fuga nella forma della rappresentazione) che possiede forza rivoluzionaria.