Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Francesca Razzato, specializzanda in archeologia.
Annientare la storia millenaria di una città, che fa parte del patrimonio culturale di tutti noi, riducendola a luna-park della spartanità. Perché questo non è giusto?
Per indagare questo aspetto forse dovremmo chiederci cosa rappresenta per noi il patrimonio culturale, e in che modo questo è partecipe delle nostre esistenze: cosa c’entra con la nostra vita quotidiana e quanto ci costerebbe svenderlo al primo acquirente.
Innanzitutto, potremmo immaginarlo come la manifestazione materiale e immateriale del nostro essere donne e uomini su questo pianeta: perché è nel patrimonio culturale che sono con-tenute le testimonianze delle profonde contraddizioni che animano la nostra condizione umana: la capacità di concepire la libertà, la tolleranza, l’uguaglianza, l’inclusione, la creatività, la laicità, la crudeltà.
Il nostro passato ci educa alla complessità, che quasi mai è consolatoria: richiede uno sforzo notevole di comprensione, indispensabile alla conoscenza.
Dunque ci vuole fatica: e perché mai praticarla se possiamo rifugiarci in una realtà tagliata a fette, sempre emozionale, di immediata comprensione, che come uno spot pubblicitario riesce a pizzicare le corde del nostro cuore?
Ecco un esempio: Taranto è stata fondata dagli spartani. Gli spartani furono un popolo glorioso. Noi tarantini siamo i loro nobili eredi. Taranto, nel 2015, è una città spartana.
Ecco fatto, il pacchetto è servito.
La storia ridotta a miniatura caricaturale di se stessa è pronta, così semplificata e annichilita, ad essere infiocchettata e svenduta al primo speculatore di turno.
E dei millenni passati, delle vicende dei nostri avi, delle trasformazioni del territorio e dell’ambiente provocate dall’agire umano, al di fuori della venuta spartana, e delle complessità che essa stessa porta con sé, cosa ne sarà?
Fumo. Polvere. Macerie.
Come se i nostri occhi non ne avessero visti già abbastanza.
Di chi è la colpa?
Nostra, ma solo in minima parte. Da una parte ci sono le logiche del mercato, che si appropriano del patrimonio culturale, plasmandolo e trasformandolo, affittandolo e svendendolo, con la complicità delle istituzioni, e riducendo al minimo la nostra possibilità di parteciparvi.
Dall’altra c’è un’ inaccessibilità cronica legata ai saperi, che ha reso le discipline storico-archeologiche un vezzo per pochi eletti. Un patrimonio, come una biblioteca di cui riconosciamo l’immenso valore, ma dall’alfabeto incomprensibile.
Ed ecco che lo scollamento è servito: da una parte ci siamo noi, imbambolati e indifferenti , e dall’altra una bellezza che è diventata vuota, asettica, incomprensibile, inutile.
E poiché quella bellezza è parte costitutiva del nostro essere umani, questa condizione è assimilabile a quella di chi si guarda allo specchio e non si riconosce.
Come invertire la rotta?
Dobbiamo immaginare di dover realizzare un puzzle.
I tasselli nella scatola rappresentano il passato, quelli in fase di assemblaggio sono il presente e il puzzle finito, il futuro della città di Taranto.
Ora immaginiamo che qualcuno irrompendo nel lavoro di composizione, dia fuoco indiscriminatamente alla maggior parte dei pezzi, compromettendo definitivamente l’opera.
Non è altro che quello che sta succedendo nella nostra città, quando si propone di trasformarla in luna-park della spartanità, in Città spartana: qualche ben pensante ha deciso che secoli di storia, in nome di un fantomatico profitto, sono fumo e polvere. E poco importa se quello che consegneremo di noi alle generazioni future sarà una fotografia incenerita di ciò che eravamo. Ciò che conta è qui e oggi, arricchirsi se e quanto è possibile, e le conseguenze sono onere dei posteri.
Una storia triste e già sentita, nel nostro territorio.
Ma allora noi cosa possiamo fare?
Innanzitutto rubare terreno all’ignoranza, con la conoscenza.
E in quanto pratica che comporta sacrificio, dobbiamo fare i conti con noi stessi e capire se ne vale la pena.
Insomma dobbiamo una volta per tutte decidere se accrescere il nostro spirito praticandola, per rimanere umani e civili, è un introito sufficiente.
In secondo luogo dobbiamo immaginare che nell’era della disuguaglianza, in cui le logiche del profitto costantemente limitano la nostra dignità e libertà, il patrimonio culturale resta un’isola felice in cui praticare il diritto fondamentale all’uguaglianza.
Attraversando un museo, contemplando un monumento, godendo della bellezza del paesaggio, che sia ricco o povero, italiano o straniero, cattolico o islamico, giovane o anziano, sono libero e uguale a tutti gli altri di cogliere e praticare gli aspetti e le contraddizioni della mia umanità.
ll puzzle, con tutti i tasselli, è ancora qui nelle nostre mani.
A breve una mano violenta e bieca li spazzerà via, come se non fossero mai esistiti.
Nostra è la responsabilità di fermarla.
Francesca Razzato