Lo slogan della sua campagna elettorale per le primarie del Partito Democratico era “cambia verso”: si doveva cambiare modo d’agire, per risollevare le sorti dell’Italia ed uscire dalla crisi.
Nella sua mozione congressuale per le primarie l’attuale Presidente del Consiglio ammetteva che il suo partito aveva permesso riforme sulla scuola senza ascoltare chi la scuola la vive ogni giorno, generando «frustrazione e respingendo la speranza di chi voleva dare una mano»; la stessa cosa in realtà è successa per l’Università (che tra l’altro non è mai citata nel documento).
Quindi, parlando di Scuola ed Università, ci si aspettavano: finanziamenti per edilizia e didattica, lotta al baronato, eliminazione dei provvedimenti che impongono parametri troppo rigidi per l’attivazione di corsi di laurea, aumento dei fondi per il Diritto allo Studio.
La realtà dei fatti però è ben diversa: l’unico intervento positivo del Governo Renzi sulla Scuola è lo stanziamento di 1.094.000.000 di euro destinati all’edilizia scolastica: ripristino, messa in sicurezza e costruzione di edifici scolastici; anche se per ora i fondi sono stati utilizzati per piccole manutenzioni, e chissà se e quando verranno stanziati tutti per gli interventi promessi, va precisato anche che per rimettere in sesto tutte le scuole italiane servirebbero molti più soldi.
Fa molto discutere in questi giorni la “Direttiva sul Sistema Nazionale di Valutazione” firmata dal Ministro Giannini, senza tra l’altro dare la possibilità ad insegnanti e studenti di poter discutere i termini della direttiva e proporre modifiche (insomma, in perfetta linea con l’atteggiamento dei precedenti governi).
La scuola di Renzi si basa sulla “valutazione”. Le scuole dovranno produrre un rapporto di autovalutazione sulla base di indicatori forniti dall’INVALSI (Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema di Istruzione); questo rapporto avrà due obiettivi: essere uno strumento utile ai genitori che devono scegliere la scuola ideale per il proprio figlio, e valutare quali istituti sono da sottoporre a verifica di ispettori scelti dall’INVALSI (verranno sottoposte a verifica il 10% delle scuole, di queste il 7% verrà scelto attraverso i rapporti di autovalutazione, il restante 3% in modo casuale).
L’INVALSI valuterà il livello di apprendimento degli studenti e l’operato dei dirigenti scolastici; da questa valutazione dipenderà anche parte dei fondi che saranno destinati alle singole scuole. La valutazione, in sostanza, viene utilizzata non come strumento per capire i propri punti di forza o debolezza, ma come un modo per “punire” chi secondo la valutazione non opera in modo corretto.
La domanda a questo punto è: come si può valutare l’apprendimento degli studenti o l’operato di dirigenti/insegnanti secondo degli indicatori che non sono in grado di tenere conto delle tante sfaccettature del territorio in cui si trova ogni scuola? C’è da considerare che alcuni insegnanti si trovano in zone dal tessuto culturale abbastanza scarno, dove di conseguenza difficilmente si possono avere gli stessi risultati sull’apprendimento che si hanno altrove; così le scuole già deboli verranno ulteriormente penalizzate. Qui si parla di redazione di rapporti basati su indicatori; la vera valutazione invece dovrebbe essere una questione interna ad ogni scuola, basata su un confronto tra studenti, docenti e genitori per capire come meglio risolvere le varie problematiche che si creano durante l’anno scolastico.
Cambia anche il sistema degli scatti stipendiali, che prima si basava sull’anzianità di servizio. Verrà istituito un sistema di crediti (per meriti didattici, titoli e incarichi) che, una volta accumulati, permetteranno l’aumento di stipendio. Questi scatti però varranno solo per il 66% dei docenti; chi resta fuori non necessariamente è un pessimo insegnante: semplicemente non ha diritto ad un aumento di retribuzione perché c’è un tetto imposto dalla legge; un meccanismo che apparentemente mira a premiare il “merito”, ma che in realtà permette allo Stato di tagliare fondi.
Sul fronte universitario le cose non vanno meglio. Recentemente è stata diffusa la bozza sul Decreto FFO (Fondo Finanziamento Ordinario), il quale regola l’assegnazione dei fondi alle università statali. Da un Governo che #cambiaverso ci si aspetterebbe un reintegro dei fondi tagliati negli ultimi anni, ed invece si ravvisa solo l’adeguamento ISTAT con un “aumento” del 0.8%.
Il FFO si divide nella quota base e quota “premiale”. La quota “premiale” viene data come “premio” alle università che presentano ottimi risultati in termini di qualità della didattica/ricerca, e fino all’anno scorso ammontava al 13% sul totale del FFO. Il problema però è che il continuo taglio ai fondi destinati alle Università ha creato difficoltà economiche non indifferenti a vari Atenei i quali, per poter rientrare dal disavanzo in bilancio, hanno tagliato fondi a didattica e ricerca; così facendo quella quota viene corrisposta sempre agli Atenei che in passato non avevano difficoltà economiche e che quindi – nonostante i tagli degli ultimi anni – sono riusciti a contenere i tagli alla propria didattica/ricerca. Il decreto prevede che la quota premiale rappresenti il 18% del totale, dunque si continuerà a diminuire i fondi agli Atenei già in difficoltà, che difficilmente potranno migliorare la propria situazione.
Per quanto riguarda i parametri per l’assegnazione della quota ordinaria invece, il Ministro Giannini ha introdotto il “Costo Standard Unitario di Formazione per Studente in Corso”, previsto dalla legge Gelmini, dove vi sono solo alcune linee guida. Il calcolo non si conosce ancora ma c’è un aspetto abbastanza pericoloso da considerare: nel riparto del FFO non si tiene conto del numero degli studenti fuori corso. Le conseguenze sono facilmente immaginabili: gli Atenei aumenterebbero le tasse a carico degli studenti fuori corso per sopperire al taglio sui fondi assegnati, oppure si ritroverebbero a “regalare” le lauree per diminuire il numero dei fuori corso – a scapito della qualità della formazione di chi poi deve entrare nel mondo del lavoro senza avere le conoscenze necessarie.
Inoltre questo metodo di assegnazione del FFO ha un altro limite: essendo legato al numero degli studenti iscritti (in corso), gli Atenei non potranno sperare di investire risorse per aumentare i propri iscritti, a meno che non si effettuino tagli su didattica/ricerca (ma questo influirebbe sul riparto della quota premiale). Nel complesso non c’è possibilità di crescita.
L’unico aspetto positivo si riscontra nella clausola che prevede che gli Atenei, rispetto allo scorso anno, non perdano più del 3.5% del FFO (l’anno scorso la soglia era al 5%). Le perdite oltre il 3.5% vengono coperte da una parte del totale del FFO (l’1.5%). E’ evidente che ci sono alcuni Atenei così in deficit che non riuscirebbero a sopportare una perdita superiore al 3.5% del FFO; si tratta di un particolare abbastanza importante, che denota il progressivo impoverimento del sistema universitario.
A quanto pare il CUN ha già espresso parere negativo sul Decreto, e sicuramente nella seduta del prossimo CNSU ci saranno i pareri negativi anche degli studenti di LINK ed ADI.
Ancora una volta si creano decreti agendo solo sui finanziamenti. Sui veri problemi dell’Università – ovvero i baroni, il sistema che permette di far vincere assegni di ricerca ai soliti “noti”, le famiglie che occupano cattedre nei vari dipartimenti come se si trattasse di aziende di famiglia oppure Direttori di Dipartimento e Rettori che agiscono solo per interesse – non si agisce mai.
Insomma, tutto in linea con i provvedimenti presi dai precedenti governi. Ma non si doveva “cambiare verso”?