Le crisi strutturali e prolungate come questa hanno un unico un grande pregio: svelano l’armamentario teorico, se esiste, che singoli individui o gruppi di pressione utilizzano per incidere sulle dinamiche economiche della società.
Si scopre, così, che mentre gran parte del movimento ambientalista mondiale giudica ineludibile il superamento delle categorie capitaliste per disarmare l’attacco continuo alle risorse ambientali del pianeta – è una lettura imperdibile la traduzione dell’ultimo libro di Naomi Klein, This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate, Simon & Schuster 2014 – nella città di chi scrive, Taranto, il luogo in cui tutte le contraddizioni del capitalismo sono materialmente radicate nei polmoni e nei cervelli della gente a causa delle emissioni di ILVA, una parte del movimento ambientalista (a questo punto bisognerebbe dire “una parte del pensiero politico”), nel criticare l’incapacità della “sinistra salottiera” di tutelare il diritto alla salute, pare gradire ricette di politica economica e fiscale caratterizzate dalla presenza di ingredienti iperliberisti che mal si amalgamano tra loro e sono, perciò, destinati a produrre pietanze indigeribili. – si legga qui. Si tratta, soprattutto, di proposte vecchie come il cucco che hanno già fallito perché già ampiamente (e funestamente) sperimentate.
Al netto di considerazioni ampiamente condivisibili sui livelli d’inquinamento insostenibili che causano una quantità impressionante di morti e al netto del sacrosanto perseguimento delle personali responsabilità sulla “vexata quaestio” ILVA, emergono posizioni di una incoerenza rara e di una vetustà secolare – salvo poi tacciare la sinistra di utilizzare la terminologia sindacale anni sessanta (ma magari la sinistra vera la utilizzasse!).
Ci si riferisce a questo passaggio: ‹‹L’Italia ha bisogno di una forza che sia capace di trovare soluzioni alla crudeltà della crisi e di operare una totale inversione di tendenza attraverso la creazione di misure che rimettano lavoratori e fasce deboli al centro della società. Politiche economiche e sociali attente a proteggere quei dieci milioni di Italiani che vivono sotto la soglia di povertà, una fiscalità impostata sul patrimonio e sulla rendita, investimenti nei settori della tecnologia e della ricerca, politiche mirate per lo sviluppo del Sud – cominciando con una differenziazione salariale (d’urgenza e provvisoria) rispetto ai contratti nazionali al fine di attrarre investimenti e iniziative imprenditoriali. Si deve operare una rivoluzione che punti a uno sviluppo del territorio che non passi attraverso lo sfruttamento del suolo e dell’ambiente ma che punti alla valorizzazione culturale e turistica››. Fatti salvi i classici generici riferimenti ad investimenti (privati o pubblici?) e agli strumenti attraverso i quali finanziarli – di numeri ed esempi neanche l’ombra -, non può non stupire l’unico strumento di politica economica specificamente indicato dall’autrice dell’articolo per “trovare soluzioni alla crisi” e rimettere “al centro le fasce deboli della società”: “una differenziazione salariale (d’urgenza e provvisoria) rispetto ai contratti nazionali al fine di attrarre investimenti ed iniziative commerciali” (qui ci si riferisce chiaramente agli investimenti privati).
Le “gabbie salariali” (per una breve storia si legga qui ) o, se si preferisce una terminologia “user friendly”, le differenziazioni salariali praticate in particolari aree del territorio italiano motivate da differenti costi della vita e/o differenti condizioni di domanda di lavoro, sono state introdotte in Italia alla fine della seconda guerra mondiale (70 anni fa) e, pur dovendo essere una leva di politica economica transitoria, sono state eliminate solo nel 1970, con l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/’70), antichissimo (secondo taluni illuminati nuovisti) strumento di equità salariale e sociale. Al di là di alcune considerazioni strettamente etiche – è giusto erogare salari diversi a persone che compiono un lavoro identico per tipologia e tempo impiegato? – a chi scrive interessa capire nel merito se si tratti di uno strumento più o meno valido di politica economica e a quali logiche teoriche risponda. In secondo luogo interessa capire se, in assenza di investimenti pubblici invocati persino dal noto bolscevico Mario Draghi la settimana scorsa dalla Finlandia, il claudicante funzionamento di un’economia a due velocità (Nord e Sud Italia), sia un fenomeno isolato o non sia piuttosto un clone in scala ridotta di un altro, ben più grande e disfunzionanete sistema economico: l’Unione Europea a 28 paesi. Qui ci si occuperà del presupposto teorico delle gabbie salariali; in un secondo articolo saranno analizzate le evidenze empiriche a disposizione, cioè gli effetti di applicazione delle riduzioni di salario attraverso contrattazione decentrata (che in Italia esistono già da tempo) e l’andamento di salari nominali e reali, del reddito disponibile e dei consumi; in un terzo articolo ci si occuperà di “questione meridionale” effettuando un paragone con l’altrettanto tristemente attuale “questione europea”.
In realtà l’idea di sganciare il livello di retribuzioni dai contratti collettivi nazionali era stata proposta dalla Lega di Bossi a Dicembre 2009 ed è stata rilanciata dal blog di Grillo qualche mese fa; si tratta del principio base della legge della domanda e dell’offerta in un mercato in concorrenza perfetta. L’argomento teorico è il seguente: livello di occupazione e salario di equilibrio sono determinati dall’incontro di domanda (quanti lavoratori le imprese desiderano assumere per ogni possibile livello del salario nominale) e offerta (numero di persone che sono disposte a lavorare per ogni livello salariale) di lavoro. Quando l’equilibrio si realizza, domanda e offerta di lavoro sono uguali, e dunque non si ha disoccupazione. Quando invece viene imposto un salario maggiore di quello di equilibrio – ad esempio attraverso la contrattazione collettiva nazionale in presenza di un mercato del lavoro duale nord/sud – l’offerta di lavoro supera la domanda, e si crea disoccupazione. Perché il salario di equilibrio al sud può essere più basso che al nord? Perché la curva di domanda di lavoro è più bassa: dato un certo salario nominale è inferiore al sud il numero di persone che le imprese sono disposte ad assumere – oppure, simmetricamente, le imprese sono disposte ad assumere, al sud, un certo numero di lavoratori solo a fronte del pagamento di un salario inferiore. La causa è, all’interno di questo modello teorico, una sola: al sud la produttività marginale del lavoro, che determina il salario di equilibrio, quello che massimizza il profitto e quindi che il datore di lavoro è disposto a pagare, è inferiore rispetto al nord. Il concetto è strettamente collegato a quello di economie di scala: non stiamo infatti parlando di produttività media, ma marginale: l’aumento di prodotto che può essere ottenuto mediante l’assunzione di un nuovo lavoratore. Si assume che tale produttività sia decrescente, e che il suo livello sia determinato da diversi fattori – ad esempio la dotazione infrastrutturale, legislativa, culturale, organizzativa (è questo il nocciolo della “questione meridionale”). Qual è l’argomentazione politica? “Meglio abolire il contratto di lavoro nazionale, e lasciare che le forze di mercato si si possano dispiegare liberamente attraverso la contrattazione decentrata, a livello territoriale o meglio ancora della singola impresa. Ci penseranno le forze di mercato – attraverso la migrazione al nord, o attraverso l’attrazione di capitali che consegue alla possibilità di sostenere costi del lavoro inferiori – a riequilibrare lo squilibrio”. Con buona pace dei lavoratori che si vedono decurtare lo stipendio: “meglio due occupati in famiglia a 1000 Euro al mese che un solo occupato a 1500 Euro”, o no?
Peccato che non funzioni così: i salari reali italiani, come si dimostrerà nel prossimo articolo, sono già stagnanti da un decennio e il reddito disponibile è già calato (e di parecchio); le gabbie salariali sono già applicate in tantissime aziende, eppure gli investimenti privati si riducono e la disoccupazione aumenta. Come mai?
E’ bene ricordare ai neo-fautori delle gabbie, molti dei quali si autoproclamano pragmatici decisori disinteressati alle teorie economiche studiate sui libri, che il brodo culturale delle gabbie salariali è quello cucinato leggendo la destrorsa ricetta (ampiamente sconfessata dai dati di fatto) secondo cui gli assiomi del libero mercato funzionano realmente (non per niente entusiasti sostenitori delle gabbie salariali sono gli economisti del sito mainstream noisefromamerik.org ): questi cuochi, dunque, sono involontari sacerdoti perfetti della più pura teoria economica liberista; sono figli putativi, a loro insaputa, di qualche economista mainstream morto anche un secolo fa. Alla faccia della modernità!
Detto questo, la convinzione teorica secondo cui una contrattazione decentrata permetta di riassorbire la disoccupazione con una temporanea riduzione dei salari, è strettamente legata al precetto montiano (dunque ultraliberista), che “distruggere” la domanda interna di un paese abbattendo i salari sia la via più breve per recuperare competitività ed esportare prodotti: lo confessa lo stesso Monti in questa intervista al Financial Times quando era ancora nostro Premier (https://www.youtube.com/watch?v=LyAcSGuC5zc). Del resto è noto che, in un’unione monetaria, non potendo svalutare il cambio si diventa competitivi o aumentando la produttività con gli investimenti (mentre in Italia siamo di fronte alla più grande contrazione degli investimenti fissi lordi che la storia economica di questo paese ricordi), ovvero riducendo i salari (svalutazione interna): questa seconda via è quella prescelta dagli “estimatori delle gabbie”, ed è la cosiddetta ricerca della “competività bassa”, quella che nega l’intervento pubblico in economia con investimenti mirati e che si affida invece agli investimenti privati, i quali, magari detassati e stimolati dai livelli salariali bassi, dovrebbero magicamente accorrere nelle aree a bassi salari per far ripartire l’economia nel breve periodo. In breve: chi sostiene una maggiore flessibilità contrattuale (sia pure nel breve periodo) è anche un fervente sostenitore della “via tedesca” alla crescita, fatta di moderazione salariale ed esportazioni, ma dimentica un particolare importante: i tedeschi l’hanno percorsa per primi utilizzando dosi massicce di investimenti pubblici nei settori dell’industria meccanica, addossando il costo dell’enorme quantità di lavoro precario creato (mini-jobs) alla collettività; se poi tutti esportano perché i salari interni si riducono (quindi i consumi interni crollano), chi compra le merci? I marziani? In Europa c’è un unico paese in avanzo commerciale enorme (il 7% del PIL): la Germania, che ha già vinto la guerra commerciale competitiva europea (ed ora è in difficoltà per carenza di consumi interni – proprio a causa della più alta percentuale di lavoratori a basso salario in Europa – e a causa dell’impoverimento degli altri consumatori europei, che non comprano più) per cui, se il Sud Italia vuole concorrere con la Germania dal punto di vista della competitività trainata dai bassi salari, questi salari andrebbero ridotti veramente di tanto (Blanchard, capo-economista FMI, calcolava nel 2006 una riduzione nominale del 30%) aprendo il nostro paese ad una cinesizzazione del modello economico, fatta di bassa specializzazione e competenze dei lavoratori ed assenza di investimento e ricerca. Un esempio chiaro del rischio che si corre abbassando i salari e liberalizzando i contratti – modello alla cui applicazione siamo comunque destinati dopo l’approvazione del Jobs Act – è la Grecia, dove i salari nominali sono scesi (non certo del 30%) e l’economia greca non è certo più competitiva e attraversa una crisi depressiva inimmaginabile: non per niente per Monti ed i liberisti il “più grande successo dell’Europa è la Grecia” (qui su La 7, 26 Settembre 2011, qualche giorno prima di diventare Presidente del Consiglio ).