Il decreto emanato ieri dal governo prospetta la fine della fase di commissariamento di Ilva e ne apre una nuova, ma non meno complicata. Entro il 30 giugno 2016 si dovrà definire il nuovo assetto proprietario della società, mentre la realizzazione delle prescrizioni AIA viene prolungata alla fine dell’anno – fatta salva la possibilità per l’acquirente di sottoporre al governo un nuovo piano ambientale. Sullo sfondo, continuano ad agitarsi le nubi della congiuntura economica: il settore siderurgico è in affanno in tutta Europa, e in particolare in Italia. La nuova leadership di Ilva dovrà fronteggiare questa situazione. Per avere un’idea più chiara dei rischi e delle sfide che attendono l’industria dell’acciaio, abbiamo sentito Riccardo Colombo. Economista, consulente aziendale e collaboratore della rete Sbilanciamoci, Colombo ha curato insieme a Vincenzo Comito la pubblicazione di “L’Ilva di Taranto e cosa farne” (Roma, 2013).
L’intervista è stata realizzata prima del nuovo decreto; non si troveranno pertanto riferimenti ad esso. Le affermazioni del prof. Colombo sono tuttavia utili a elaborare un giudizio sulla nuova fase.
La siderurgia europea sta affrontando una fase di grande difficoltà. I livelli dei prezzi sono crollati, principalmente per effetto della concorrenza extra-comunitaria, e in diversi paesi torna lo spettro delle dismissioni. In che situazione si trova il mercato siderurgico in Europa e quali scenari si prospettano?
Chiariamo un punto: il consumo di acciaio pro-capite dell’Europa è superiore ai 300 Kg per abitante; quello dell’India è ancora di 60 Kg/ per abitante. Non ci può essere una crescita significativa della domanda interna, al di là dei cicli congiunturali con le loro bolle speculative. Il futuro della siderurgia europea risiede solo nelle esportazioni verso paesi terzi e nella sua vicinanza, fisica e culturale, ai settori utilizzatori: costruzioni, meccanica e automobile.
Guardiamo alle esportazioni. Malgrado la pesante svalutazione dell’Euro nel corso del 2015, la bilancia commerciale dell’UE nel settore dell’acciaio presenta un saldo negativo: le importazioni stanno superando le esportazioni. E’ colpa della Cina ? Oltra al fatto che il maggiore fornitore dell’Europa è la Russia, io mi preoccuperei soprattutto del calo delle esportazioni, perché il loro andamento negativo sta ad indicare una perdita di competitività e un insufficiente presidio dei tradizionali mercati di sbocco. I continui ridimensionamenti del passato (una forma di “eutanasia” di settore) ha indebolito nel tempo le economie di scala e le economie di scopo necessarie per fronteggiare le nuove condizioni della concorrenza internazionale. Certo, ci può essere un problema di rapporto prezzo/qualità e quindi di insufficiente innovazione di prodotto e di processo, ma credo che la vera questione concerni le dimensioni aziendali e di impianto. Basta prendere l’elenco delle grandi imprese siderurgiche nel mondo. Tolta Arcelor Mittal, che è una multinazionale, le altre imprese europee si collocano ben in basso nell’elenco. Da qui emerge il ruolo strategico di Taranto: perdere un impianto da 10 milioni di tonnellate di capacità produttiva non significa tanto dieci milioni in meno (volumi comunque significativi a fronte di una produzione europea di 164 milioni), quanto privarsi di uno stabilimento con grandi economie di scala e quindi potenzialmente competitivo in termini di costi.
Nella siderurgia europea esiste da sempre un problema di marketing: orientata al prodotto e alla materia prima, con una rete distributiva frammentaria e mal governata, abituata a servire i grandi clienti automobilistici, la siderurgia europea non riesce ad essere “vicina” a quelli che potrebbero essere i settori utilizzatori più legati al territorio, quali le costruzioni e la meccanica. E questa debolezza spiega come la siderurgia europea soffra in modo così marcato della competitività sui prezzi.
Si è arrivati alla fine di una lunga discesa; spetta all’industria reagire salvaguardando i livelli produttivi, avviando processi di concentrazione e innescando finalmente politiche di marketing.
Sul piano delle politiche, si riscontra una differenza sostanziale rispetto al passato. Se negli anni ’80 si misero in campo misure ad ampio raggio – e su scala europea – per affrontare la crisi, oggi le autorità comunitarie sembrano interpretare piuttosto il ruolo dello spettatore davanti alle dinamiche di mercato. Che tipo di intervento sarebbe necessario?
Primo: non accettare un ulteriore ridimensionamento della capacità produttiva. Non esiste in Europa un problema di sovrapproduzione. Secondo: chiedere interventi e supporti per l’innovazione e per gli investimenti. Il futuro dipende dalle Autorità Europee, ma soprattutto dalla capacità dell’industria di darsi obiettivi e strategie di sviluppo, allineate alle nuove condizioni della concorrenza internazionale.
La proposta elaborata di recente da Edouard Martin prospetta una sorta di “protezionismo verde”, per difendere il mercato europeo dal dumping dei concorrenti extra-comunitari. Si tratta di una misura adeguata e sufficiente?
Quando parla di protezionismo verde suppongo si riferisca ai punti 10 – 16 del documento, collocati sotto il titolo “L’adeguamento alle frontiere per il carbonio….” . Ritengo che sia una proposta totalmente irrealistica, non fosse altro per l’importanza della Cina nelle esportazioni europee. Inoltre è impossibile misurare la quantità di carbonio in un prodotto finito di acciaio. Penso che siano più interessanti altre parti del documento, per esempio i capoversi 5, 19 e 23, i quali potrebbero permettere alla siderurgia europea di avere regolamentazioni e finanziamenti che sostengano politiche di innovazione di prodotto e di processo e favoriscano la transizione verso un’industria dei metalli a basse emissioni. L’unica possibilità di sopravvivenza per la siderurgia europea è quella di abbandonare una posizione difensiva e nostalgica: la CECA non esiste più, ha fatto disastri negli anni ’90, l’Unione Europea non può sostenere un settore che dà lavoro a 350.000 occupati, mentre ha chiuso con le politiche di sostegno dei prezzi agricoli. E’ meglio guardare avanti. E’ vero, poi, che esiste un dumping da parte dei concorrenti extra europei ? Dallo studio del Centre for European Policy Studies Assessment of Cumulative Cost Impact for the Steel Industry final report 2013 emerge un effettivo divario di costi.
In questo contesto, la siderurgia italiana sembra destinata a svolgere la parte del manzoniano “vaso di coccio fra vasi di stagno”: mentre i grandi operatori (Arcelor Mittal, Thyssen Krupp, Tata ecc.) si contendono le quote maggiori del mercato europeo, le nostre imprese sono appena in grado di scavare nicchie – anche perché intanto il solo grande player, Ilva, è di fatto fuorigioco. Dobbiamo rassegnarci a un cupio dissolvi per la siderurgia italiana, o qualcosa ancora si può fare per rilanciare il settore?
Dobbiamo distinguere tra i diversi segmenti della siderurgia italiana. Per quanto riguarda i prodotti lunghi, il comparto soffre soprattutto di una caduta della domanda, mentre la bilancia commerciale è in attivo. A differenza di quanto generalmente si pensa non vedo una crisi di competitività, quanto una serie di difficoltà aziendali. Più grave è la situazione dei prodotti piani, comparto nel quale si registra un forte aumento delle importazioni a fronte di una crescita, pur lieve, della domanda: pesa sicuramente il blocco dell’Ilva, che nel 2014 ha prodotto meno di 6 milioni di tonnellate, ma temo che ci siano criticità legate al rapporto prezzo/qualità e ad una “disaffezione” della Fiat verso il prodotto italiano. Certo, non ci dobbiamo rassegnare alla scomparsa della siderurgia italiana! Al di là del caso specifico di Ilva sono necessarie una serie di misure a sostegno dell’innovazione e del risparmio energetico, ma anche interventi di capitalizzazione delle aziende di eccellenza dell’industria italiana, come Arvedi, Acciaierie Venete e Ori Martin, per fare alcuni esempi. Se guardiamo le innumerevoli misure di politica industriale messe in campo dal governo, non c’è ne una specifica per l’industria dei metalli: per esempio, il Fondo Nazionale per l’Efficienza Energetica, al di là che non è ancora operativo, spalma le sue poche disponibilità su molteplici comparti, dall’edilizia alla pubblica amministrazione. E’ necessaria quindi una maggiore attenzione del governo, ma perché questo avvenga bisogna che i soggetti imprenditoriali abbandonino un atteggiamento chiuso sui temi dell’ambiente e del risparmio energetico. Il Fondo Strategico della Cassa Depositi e Prestiti è dotato di 4 miliardi di euro; senza incorrere nel divieto di aiuti di stato potrebbe intervenire in aziende in utile sulla base di un business plan, che tenga conto anche di programmi di innovazione e di salvaguardia dell’ambiente. Ma i soggetti imprenditoriali sono disponibili a partecipazioni pubbliche o sono arroccati nella loro dimensione familiare? E’ forse questo la vera questione della siderurgia italiana.
Si è fatto cenno a Ilva. La situazione della principale azienda siderurgica italiana è tutt’altro che felice: mancano un assetto proprietario stabile, una strategia industriale credibile e un management in grado di perseguirla. Considerato quello che abbiamo detto fino a questo momento sulla situazione di mercato, e sui concorrenti italiani e stranieri, si può fare ancora qualcosa per salvare Ilva? E, se sì, cosa?
Si è perso troppo tempo. Il problema dell’assetto proprietario e delle risorse finanziarie andava affrontato subito, immediatamente dopo il Decreto Salva Ilva [il riferimento è al decreto di gennaio 2015, ndr]. Così non è stato, ed oggi il governo tenta un’operazione molto difficile, a fronte di un grave ritardo negli investimenti di risanamento ambientale; ritardo, che ovviamente crea ostilità e disillusione da parte della popolazione di Taranto. Innanzitutto non bisogna più prendere in giro la gente. Per esempio l’idea del preridotto (nel mondo si producono 70 milioni di tonnellate contro un 1,6 miliardi di produzione mondiale di acciaio) è un’altra presa in giro perché in un impianto a ciclo integrale il preridotto non può incidere più di un 20% nella carica dell’Alto Forno e quindi non sostituisce la cokeria. La priorità è di concludere l’investimento di risanamento ambientale. Il Decreto Salva Ilva permette di farlo senza ricorrere ad un nuovo soggetto societario. Pertanto o si porta a buon fine rapidamente il disegno del governo o si vada avanti nell’investimento con l’attuale assetto commissariale, finanziando la spesa con il ricorso a linee di credito delle banche, BEI, Cassa Depositi e Prestiti ecc.: linee di credito garantite dallo Stato italiano, come avverrebbe anche nel caso dell’attuazione del progetto del governo. Risanare lo stabilimento è un atto dovuto alla città di Taranto e non può più aspettare.