“Combattere la povertà – Lavoro non assistenza”, pubblicato da Ediesse nel 2014, è una raccolta di scritti di Hyman Minsky, economista americano eterodosso famoso per le sue tesi sull’instabilità del capitalismo. E’ un libro molto attuale e dirompente poiché riprende le tesi di Minsky, secondo cui la povertà va combattuta creando lavoro e non con politiche di assistenza, quali trasferimenti monetari o riduzione di imposte; il pensiero di Minsky è efficacemente sintetizzato nell’introduzione all’edizione italiana di Riccardo Bellofiore, professore di Economia Politica presso l’Università degli Studi di Bergamo, e Laura Pennacchi, economista presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma. Eccone un breve estratto.
L’economia capitalista è soggetta a crisi interne e gravi tanto più significative quanto più essa è caratterizzata da un sistema finanziario sofisticato che vede una crescente integrazione tra i diversi bilanci e quanto più essa fonda il suo sviluppo su ampi investimenti in capitale fisso che distendono i loro effetti in un lungo orizzonte di tempo. L’investimento, nutrito dal debito privato, è la parte più variabile della domanda aggregata dipendendo oltre che dalle mutevoli aspettative degli imprenditori, anche dall’andamento dei prezzi delle attività finanziarie: la variabilità dei prezzi e gli animal spirits imprenditoriali determinano le bolle speculative che, guidate da sentimenti per definizione irrazionali, scoppiano. Quando le bolle scoppiano e il debito privato non può essere restituito, il corredo delle politiche interventiste keynesiane non è solo opportuno, ma necessario e lo Stato non deve intervenire solo abbassando il tasso di interesse, ma deve permettere alla Banca Centrale di provvedere al proprio compito, quello di lender of last resort (prestatore di ultima istanza): non devono fallire le banche. La spesa pubblica in disavanzo, oltre ad avere l’effetto di tenere alti i redditi, contribuisce a tenere alti i profitti impedendo quel circolo vizioso che porta alla contrazione del reddito, quindi delle imposte, quindi nuovamente ad altra stretta fiscale. In questa ottica una politica di Big Labor è da vedere con favore perché aggiunge una benvenuta rigidità verso il basso dei salari e degli stipendi che rallenta la caduta dei consumi dei lavoratori. Questa crisi, in particolare, si caratterizza per il debito privato dei consumatori finali più che degli investitori, debito che ha sostenuto la domanda finale tramite il circuito risparmio – fondi privati (fondi pensione) – consumo finale per mezzo di nuovi strumenti finanziari mentre gli investitori privati (cioè gli imprenditori, cioè chi avrebbe dovuto investire) hanno preferito speculare tenendo alti i prezzi degli assets bancari: si è parlato di Keynesismo privatizzato sostenuto dalla finanza. In un mondo del lavoro sempre più precarizzato e frammentato, la grande liquidità immessa sui mercati ha fatto ripartire i mercati finanziari (money manager capitalism), non la domanda di beni di consumo dei lavoratori; e questa è una grande novità rispetto alla crisi del ‘33: il lieto fine non è garantito e non soltanto in Europa. Questa è la fase del capitalismo manageriale dove la rivalutione degli assets deve avvenire nel breve termine anche per mezzo di ristrutturazioni, fusioni, incorporazioni che lasciano a spasso milioni di persone; gli Stati senza moneta dominati dalle codizioni di mercato dovrebbero essere i nuovi motori dell’investimento e del finanziamento di attività realmente innovative, mentre invece hanno sostenuto genericamente la domanda attraverso un keynesismo militare, aggredendo il problema di disoccupazione e povertà per mezzo di limitati trasferimenti alle famiglie.
In questo senso un New Deal sarebbe già un passo avanti non solo per uscire dalla crisi, quanto per uscire dalle secche della sottoccupazione e della disoccupazione. Benchè il New Deal non fosse a stretto rigore keynesiano – Roosevelt era contrario a disavanzi di bilancio e per questo sospese le sue azioni nel 1937 – per altri versi superava Keynes intervenendo direttamente sulla struttura produttiva e sulle infrastrutture producendo “valori d’uso sociali” e per questa via occupando direttamente i lavoratori disoccupati. Il New Deal introdusse il Glass Steagall Act – separazione tra banche d’affari e d’investimento – e introdusse i minimi salariali preferendo offrire un lavoro per sostenere il reddito piuttosto che un trasferimento monetario diretto (sussidio). La Great Society di Johnson – ma anche le politiche di Kennedy – avevano un respiro molto inferiore, poiché accoppiavano misure caritative per combattere la povertà a sgravi fiscali per stimolare gli investimenti lasciando fare al mercato: il risultato fu l’economia trainata dalle spese militari mentre i salari reali scendevano. Tutto funzionò in assenza di una seria depressione: ecco perché le stesse politiche oggi funzionano meno; l’alternativa sarebbe stata socializzare gli investimenti di uno Stato che si fa datore di lavoro di ultima istanza, pianificando ritmo e dimensione degli investimenti al di fuori del mercato.
Keynes è un liberale e, come tale, non intende assolutamente abbattere il capitalismo ma preservarlo, salvarlo teorizzando l’intervento dello Stato quando esso, appunto, non funziona. Attraverso l’osservazione dei problemi dei suoi tempi, lui capisce che il pieno impiego e la redistribuzione della ricchezza sono gli scopi che la macroeconomia deve perseguire, ma precisa subito che, pur abbattendo il tasso d’interesse (ed uccidendo così il rentier, il proprietario parassita), sono da approvare tutti i compromessi grazie ai quali l’autorità pubblica coopera con quella privata. A Keynes l’efficiente allocazione delle risorse va bene nel momento in cui il volume dell’occupazione aumenta (ma non parla di come direzionare l’occupazione).
In questo senso lo Stato può aumentare la spesa derivata in consumi attraverso investimenti che non producano “valori d’uso” per la società (va benissimo “scavare le buche per poi riempirle”). In quest’ottica, come si accennava, la guerra è una grandissima lezione di keynesismo, vuoi se data dai conservatori vuoi da progressisti. Keynes è criticatissimo da tutti gli economisti eterodossi, a partire dalla Robinson, passando per Minsky per arrivare a Sylos Labini e Graziani. Con Keynes era facile far riaffiorare la vecchia teoria liberista (stimolare gli investimenti privati e, attraverso l’aumento dei profitti e magari anche l’aumento della disuguaglianza relativa, ingrandire la torta – il PIL totale – quindi combattere la povertà attraverso trasferimenti); fin quando la finanza speculativa fu tenuta a bada, lo stimolo pubblico all’investimento e l’investimento pubblico stesso hanno mascherato il problema. Kalecki, in anticipo di 30 anni, e Minsky, in anticipo di 10 anni, criticano Keynes: non è detto che le politiche anticicliche non creino altre bolle, e non è secondario decidere cosa produrre, quanto produrre, come, con quali rapporti tra beni (i prezzi), per chi produrre e che tipo di occupazione creare. Per Minsky non si possono socializzare gli investimenti e credere contemporaneamente nell’efficiente allocazione di risorse da parte del mercato; c’è bisogno di un socialismo di mercato che controlli i centri di comando e promuova il consumo collettivo dei beni che si deciderà di produrre e consumare. Il tutto sotto l’egida, ovviamente, di un rigido controllo dei capitali. Il keynesismo si risolve in un Big Government, uno stato che stabilizza economia e profitti e sussidia il consumo. Il consumo in comune deve soddisfare la maggior parte dei bisogni privati; sarà Federico Caffè che, in Italia, insieme con Augusto Graziani, parleranno di una vera e propria economia statale dei controlli. E sarà proprio Graziani a parlare di spesa pubblica accuratamente valutata che diventi prodotto sociale utile, spostando parzialmente la centralità del discorso economico dalla lotta per il salario alla lotta per la produzione: in questo senso lo Stato ha la responsabilità di aprire la strada ad investimenti che migliorino la qualità strutturale dell’economia in un’ottica di lungo periodo (ancora “socializzazione degli investimenti”). Il disavanzo di bilancio non solo non è un problema, ma deve essere scientemente praticato e programmato per creare lo stock di risorse tangibili ed intangibili atte a definire una società di piena occupazione e sviluppata.
Per Minsky, come per la Robinson, è fondamentale un eccesso di domanda di lavoro statale sull’offerta in modo tale da impiegare tutti, anche nei settori di bassa qualificazione (dove il salario va peggiorando nel tempo) permettendo un parziale trasferimento di parte dei salari dei settori ad alta qualificazione su quelli a bassa qualificazione e provvedendo alla corresponsione di parte del salario in natura. Partendo da questo presupposto anche la centrale importanza del PIL perde peso: il PIL non è più l’elemento centrale al quale riferire l’aumento dell’occupazione, soprattutto quando parte della produzione ha una componente fortemente finanziaria; se lo Stato è datore di lavoro di ultima istanza può concentrarsi a produrre meglio sganciandosi dal paradigma liberista. Per superare la crisi Minsky intreccia politiche di breve periodo a politiche strutturali; nel breve periodo si esce dalla “trappola del debito” e dalla “trappola della liquidità” stampando moneta per finanziare il deficit pubblico, certamente non attraverso il Quantitative Easing di Draghi, che presuppone trasferimento di denaro alle banche in cambio di ulteriori sacrifici degli Stati (quindi trasferimento di risorse dal pubblico al privato). E’ ora di prendere consapevolezza che, in un ciclo di delevereging (cioè di riduzione della leva finanziaria o indebitamento), le economie continuano a soffrire di profonde recessioni a meno che i singoli Stati non facciano ricorso ad abbondanti disavanzi per sostenerle.
Nel lungo periodo bisognerebbe invece programmare lo sviluppo quantitativamente e qualitativamente (la famosa socializzazione degli investimenti che avvicina la domanda all’offerta attraverso un “piano del lavoro”). C’è bisogno di una rivoluzione culturale che permetta di riscoprire la discriminante tra beni sociali, beni pubblici e beni comuni: nella visione neoclassica, infatti, le persone non sono parte di una società che crea desideri e bisogni, ma sono solo individui le cui preferenze cadono come manna dal cielo, come se non fossero influenzate dal contesto sociale in cui si formano. La massimizzazione dell’utilità del singolo implica una preferenza per il consumo individuale piuttosto che collettivo: restano fuori beni comuni e ambiente.
E’ solare, invece, come la spesa militare non contribuisca al benessere, mentre contribuiscono ad esso scuole, parchi, verde, ospedali. Se non si compiono tali distinzioni una teoria economica non è utile: se la domanda privata di lavoro langue, invece di rilanciare la crescita per produrre lavoro, sarebbe il caso di creare lavoro per rilanciare sviluppo qualitativo e quantitativo. Si parla di big push da parte dell’operatore pubblico che privilegi prima di tutto impieghi ad alta intensità di lavoro e domanda interna di beni collettivi, non individuali. La riduzione delle tasse (di cui tanto si parla in Italia) è una scelta povera, perché si limita ad accrescere il potere d’acquisto di quelli che hanno reddito, senza creare lavoro là dove manca ed è richiesto e senza affrontare i nodi strutturali dell’economia di una società; tagliare le tasse significa tarpare le ali all’operatore pubblico e privatizzare. Il riferimento al New Deal di Roosevelt è necessario: furono create agenzie federali e governative come il Civil Work Administration (collar e workers), la US Coast and Geodetic Survey, il National Park Service, il Public Works of Art Project (che diede lavoro a 3000 artisti disoccupati). Un Piano del Lavoro italiano darebbe occupazione per decenni: per fare un esempio, 1000 scuole pubbliche italiane sono state costruite nell’Ottocento, 2 scuole su 3 hanno più di 30 anni, più di tremila tra fine ottocento e 1920, di quasi 7000 scuile non si conosce la precisa età di costruzione.