Le note che seguono descrivono, in maniera disorganizzata e parziale, alcune immaginarie fotografie che chi scrive ha afferrato e fatto sue durante la complessa e straordinaria esperienza di accoglienza autorganizzata in relazione all’arrivo, a Taranto e in provincia, di alcune migliaia di migranti. Queste note non hanno il taglio del reportage, né l’ambizione dell’inchiesta che possa far luce sugli evidentissimi limiti del meccanismo di accoglienza messo in piedi dalle pubbliche autorità, assolutamente inadeguato e insostenibile, al netto della straordinaria dedizione e passione di attivisti e volontari. Entrambi i profili – quello del reportage e dell’inchiesta, insieme con l’analisi politica – andrebbero praticati urgentemente. Quello che si propone qui, invece, è una parziale raccolta per immagini, pensieri e suggestioni disorganizzate. Il filo conduttore che alimenta le righe che seguono è, appunto, la parzialità. Chi scrive ha potuto esercitare sguardi solo parziali: ha potuto frequentare i luoghi dell’accoglienza solo nelle ore serali e notturne, e ha passato gran parte di queste ore al Pala Ricciardi e, in secondo luogo, al Baby Club, due dei centri adibiti ad ospitare, rispettivamente, maggiorenni – spesso con famiglie al seguito – e minori non accompagnati.
La prima carrellata di immagini, che si inseguono veloci finendo per mischiarsi e sovrapporsi, insistono sul Pala Ricciardi, palazzetto dello sport di periferia adibito ad ospitare diverse centinaia di profughi, ammassati in una distesa di materassi senza soluzione di continuità.
Sui letti, per altro, si è dormito poco – per colpa del caldo insopportabile, del caos e della totale mancanza di intimità – ma in compenso si è mangiato: il sistema di accoglienza predisposto non prevedeva, per dirne una di tante, l’utilizzo di tavoli sui quali consumare i pasti.
Precarietà è la cifra complessiva e il paradigma di funzionamento dell’intero meccanismo. Precarietà con la quale tutti facciamo quotidianamente, ma che se associata al tema degli spostamenti collettivi delle donne e degli uomini assume subito il retrogusto del dramma. Precarietà nelle comunicazioni inerenti allo status giuridico che investe chi migra, precarietà in tema di informazioni intorno al “dove siamo?” “perché siamo qui?” “quanto ci resteremo?”. Precarietà nell’assistenza complessiva, dal lavaggio dei tanti bimbi presenti, alla distribuzione dei pasti, finanche all’assistenza medico sanitaria: tutte attività che, con particolare riferimento ai primi giorni di mobilitazione, non avrebbero avuto alcun connotato di efficacia se non fossero state a volte sostenute, altre volte interamente messe in piedi da una reta di volontari ed attivisti dall’umanità strabordante.
E ancora: precarietà disarmante per ciò che è inerente all’accoglienza delle specificità culturali, religiose, le esigenze di intimità, socialità, riservatezza, svago, orientamento, sostegno psicologico nei confronti di chi scappa da guerre e miseria, come se l’umanità possa essere ridotta alle attività della nutrizione e del riposo, per altro anch’esse terribilmente precarie.
Dagli assorbenti allo shampoo, dal vestiario all’intimo, passando per giocattoli e medicinali: la solidarietà – parola spesso inflazionata e dal taglio retorico – questa volta sembra essere la più idonea per descrivere un fenomeno ampissimo, strabordante, che ha visto un’ampia comunità prodigarsi per garantire quanto le pubbliche istituzioni non hanno fatto.
Occorre, accanto alla descrizione della materialità della mobilitazione prodotta, provare ad afferrare anche il non detto, quello che si percepisce come presente ma che, allo stesso tempo, sfugge via. La qualità politica dell’intervento autorganizzato si nutre, infatti, di un fluido magnetico inafferrabile ma onnipresente, che attraversa i corpi impegnati nell’accoglienza, li connette e li avvicina in assoluta prossimità con i corpi impegnati nella drammatica arte della fuga collettiva, creando un mix di passione, dedizione e cura così potente da stravolgere intere esistenze.
Ancora due immagini, due fotogrammi che chi scrive ha impresso nella mente, tra i tantissimi che tutt* ci portiamo dietro dalle ore passate e che continueranno a colorare, a tinte forti, le giornate a venire.
Nella prima c’è S., amico e compagno, che accoglie numerose famiglie appena depositate da un bus davanti all’ingresso del Pala Ricciardi: S. indica con un braccio la direzione da seguire per il primo pasto, e scandisce ritmicamente solenni, emozionati – ed emozionanti – you are welcome per tutti i nuovi arrivati.
Nella seconda si possono osservare, in lontananza, F. e Mg, sole, che distribuiscono indumenti ad un numero crescente di donne, ragazze e bambine, indietreggiando a tratti ma resistendo, armate come sono di un’irriducibile dolcezza, davanti ad un numero crescente di braccia che provano in maniera caotica ma mai aggressiva ad afferrare un po’ di dignità.
In tema della responsabilità politica e umana – argomento anch’esso da introdurre con urgenza – di chi ha gestito, specie nei primi giorni, in quest’apoteosi dell’approssimazione, contribuendo a reiterare precarietà e disagio nei corpi di queste soggettività in fuga da guerra e miseria, questi frammenti di riflessione aiutano poco. Non di meno, è un’attività che va anch’essa prodotta presto e collettivamente. In generale, chi scrive ha la sensazione che l’atteggiamento complessivo praticato da tutte le istituzioni responsabili del governo della migrazione sia stato sovrapponibile a quello di un padrone di casa nei confronti di un ospite indesiderato, che allo stesso tempo si deve sforzare di produrre qualche sorriso ma che, in definitiva permette che permangano potenti elementi di disagio, nell’ottica di un rapido sgombero che faccia terminare l’evidente momento di disturbo.
In conclusione di una storia che, evidentemente, è lontana dal concludersi, sarebbe urgente che la produzione di racconti, saperi e testimonianze diventasse un’attività collettiva, e che al punto di vista, ristretto e parziale, di chi ha scritto queste righe si aggiungessero le narrazioni di chi, immensamente più dell’autore di queste note, si è prodigato in queste ore affinché tutt* noi varcassimo, insieme, il delicato confine che separa la dignità umana dall’eterno ritorno del dolore e della miseria.
Le storie che, in maniera frettolosa e disorganizzata, si è provato a raccontare non hanno il gusto del lieto fine: la mobilitazione per un’accoglienza degna continuerà nelle prossime ore e nei prossimi giorni, insieme con la lotta per i diritti di cittadinanza per tutt* – senza preclusioni, specificazioni o distinguo di sorta – che ci chiama con urgenza, nell’ottica di un continuo protagonismo collettivo così denso e accogliente da destabilizzare. Perché in gioco c’è anche la nostra di libertà.