L’interessamento di Arcelor Mittal per Ilva è cosa nota da tempo: appena due giorni fa, insieme a Marcegaglia, la stessa multinazionale ha diramato una lettera di intenti al commissario Gnudi ribadendo la volontà di acquisire il gruppo siderurgico italiano. Del principale produttore mondiale di acciaio tuttavia in Italia si sa molto poco (o, almeno, non si sa quanto si dovrebbe): com’è strutturato e come si è formato questo impero che al momento impiega 232 mila addetti in 60 diversi paesi del mondo? E chi è il suo fondatore, Lakshimi Mittal, uno degli uomini più ricchi e potenti del globo?
L’ascesa di Mittal nell’olimpo del capitalismo mondiale è raccontata in maniera efficace da un bel documentario trasmesso (solo nei paesi europei francofoni e germanofoni, purtroppo) dal canale Arte lo scorso 16 settembre. “Mittal. La face cachée de l’empire” (“Mittal. La faccia nascosta dell’impero”) è il titolo. Attraverso testimonianze dirette di dirigenti ed ex dirigenti del gruppo, uomini d’affari, economisti, giornalisti specializzati, politici e sindacalisti, il regista, Jérôme Fritel, è stato in grado di delineare in tutta la sua complessità la peculiare parabola della multinazionale dell’acciaio, rappresentandola come una vicenda esemplare dell’evoluzione maturata dall’intera economia mondiale nel corso dell’ultimo ventennio.
Lo scenario che fa da sfondo alla brillante carriera di Mittal è infatti il processo di globalizzazione capitalistica, che trova un fondamentale momento di slancio nella destrutturazione – e conseguente apertura al mercato – delle economie pianificate dell’URSS e dell’Est Europa. Prima di allora, le attività di Lakshmi Mittal sono circoscritte all’India, suo paese di origine. Qui, alla metà degli anni ’70, il giovane Lakshmi entra nell’azienda di famiglia, specializzata nella commercializzazione del rottame, e decide di ampliarne le attività investendo direttamente nella produzione di beni siderurgici. Il salto di qualità compiuto in questo modo gli consente di presentarsi all’appuntamento con la svendita delle industrie degli ex paesi socialisti in una posizione di relativo vantaggio. Mentre i colossi siderurgici europei sono reduci da un decennio di crisi che li ha scossi dalle fondamenta – e vanno riorganizzandosi specialmente attraverso fusioni, acquisizioni e privatizzazioni che restano circoscritte all’area CEE -, Mittal ha risorse fresche da riversare sui mercati dell’Est. Nel 1995 acquisisce così dal governo del Kazakistan la Karmet Steel, a sua volta proprietaria di uno dei più grandi stabilimenti siderurgici dell’ex URSS: quello di Temirtau. Il rischio è grosso, ma il gioco vale la candela: comprimendo i costi ed esasperando i ritmi produttivi, la gestione Mittal riesce a realizzare prodotti di qualità medio-bassa a prezzi molto concorrenziali: una combinazione perfetta per le esigenze dei consumatori dei paesi emergenti, la cui domanda di beni siderurgici nel corso del decennio successivo è destinata a crescere a ritmi rapidissimi. In quello stesso frangente Mittal acquisisce imprese anche in Germania dell’Est, Polonia, Repubblica Ceca e Romania, consolidando la sua presenza sui mercati dell’ex blocco sovietico.
Il capitolo sull’acquisizione della Karmet Steel rivela i tre aspetti fondamentali del “modello Mittal”: una gestione delle attività votata alla massimizzazione del profitto nel breve periodo, che garantisce significativi dividendi agli azionisti; solidi rapporti con la comunità finanziaria, che inevitabilmente trova nelle imprese di Mittal straordinarie opportunità di investimento in virtù della loro remuneratività; legami disinvolti con la politica (in Kazakistan il presidente Nazarbaev lo accoglie con onori degni di un capo di Stato) che consentono al magnate indiano di concludere buoni affari in un mercato dove il rapporto fra imprese e governi è strettissimo, dato il ruolo strategico del settore siderurgico nel quadro di ogni economia nazionale.
Negli anni a venire questi aspetti vengono ulteriormente accentuati, a partire dal “matrimonio d’interessi” con la grande finanza. All’inizio del nuovo millennio Mittal si lancia in nuove spericolate acquisizioni, puntando al mercato statunitense; per condurre in porto questa impresa ha però bisogno del sostegno di Wall Street, i cui operatori controllano le principali società siderurgiche USA. In particolare, il fondo di investimento che fa capo al finanziere Wilbur Ross, specializzato nell’acquisizione e nel risanamento di grandi imprese, in quel momento detiene quel che resta di gloriosi marchi ormai decaduti, come la Bethlem Steel e la U.S. Steel. Nel 2005 Mittal riesce ad accordarsi con Ross, e ne rileva le attività in ambito siderurgico; il principio sul quale i due convergono è esplicitato dallo stesso finanziere americano: “l’obbiettivo dell’impresa è creare valore per gli azionisti”.
In questo modo si salda un legame apparentemente anomalo: da una parte la siderurgia, una delle industrie più antiche e “pesanti”; dall’altra la finanza, che in quegli stessi anni sembra staccarsi dalla cosiddetta “economia reale”, e generare ricchezza in maniera autonoma, attraverso operazioni speculative sempre più complesse. In realtà la vicenda Mittal dimostra proprio che il presunto conflitto fra “finanza” ed “economia reale” – luogo comune ancora oggi molto in voga – è semplicemente una sciocchezza. Mittal si beneficia del rapporto con la grande finanza per alimentare ed espandere il suo impero, mentre gli investitori godono dei lauti dividendi distribuiti dalle aziende del gruppo. Perché questo circuito non si interrompa bruscamente però è necessario che i rendimenti siano i più alti possibile – non solo in confronto agli altri operatori del settore, ma anche rispetto ad altri comparti industriali. Ciò introduce inevitabilmente delle condizioni precise all’azione dell’impresa sia nella gestione delle sue attività che nel rapporto col mercato.
Sul primo versante, per dirla con le parole dello stesso Wilbur Ross, rispetto al modello di gestione prevalso in passato, “gli azionisti non sono più gli schiavi del management”; piuttosto si verifica il contrario. Mittal infatti responsabilizza al massimo i suoi dirigenti, al punto da renderli a loro volta “imprenditori”, la cui carriera viene fatta dipendere strettamente dai risultati economici realizzati dagli impianti che sono chiamati a gestire. Al di là della retorica aziendale, questo implica un drastico ridimensionamento delle prospettive gestionali: come denuncia Philippe Lamberts, europarlamentare belga del gruppo verde, “l’orizzonte delle imprese di Mittal è il singolo trimestre”. Tale indirizzo incide chiaramente anche sulla dinamica degli investimenti tecnici, esposta a una pressione al ribasso in virtù della priorità accordata alla remunerazione degli azionisti nel breve periodo.
Nel rapporto col mercato, l’obiettivo di massimizzazione dei profitti porta Mittal a costruire una posizione di dominio, quasi da monopolista. Completa, a monte, l’integrazione verticale del gruppo, acquistando miniere in diverse parti del mondo – e finendo così per inglobare l’intera filiera produttiva: dal minerale al prodotto finito -; al contempo, cerca di estendere ulteriormente l’integrazione orizzontale lanciandosi nell’acquisizione dei principali concorrenti. Sotto questo profilo, l’operazione più importante – di portata epocale per l’intero settore – è la scalata ad Arcelor, il colosso europeo dell’acciaio costituito nel 2002 dalla fusione fra la lussemburghese Arbed, la spagnola Aceralia e la francese Usinor. Arcelor è il concorrente numero uno di Mittal sullo scacchiere globale: nel 2005 i due gruppi si contendono l’acquisizione dell’ucraina Kryvorizhstal (alla fine a spuntarla è la società indiana), ma ben presto lo scontro diventa frontale. Mittal propone ai dirigenti di Arcelor un’intesa, ma questi rifiutano (per “differenze culturali”, sottolinea l’allora presidente di Arcelor, Guy Dollé). Il magnate indiano allora avvia la sua strategia di acquisizione aggressiva della grande impresa europea. E’ il 2006 e Mittal ha dalla sua la grande finanza, che alimenta i suoi progetti, ma non solo. Riesce a blandire i capi di Stato e di governo dei paesi europei coinvolti nell’operazione, in particolare il presidente francese Jacques Chirac e il primo ministro lussemburghese Jean Claude Junker (attuale presidente della Commissione Europea). Quest’ultimo è il primo a “cedere”, sollecitato dalla comunità finanziaria – dalla quale l’economia lussemburghese dipende in maniera decisiva a seguito della trasformazione del Granducato da bacino industriale a “paradiso fiscale” – e allettato dalla proposta di Mittal di stabilire proprio a Lussemburgo la sede dell’intero gruppo – scelta ispirata naturalmente anche dal regime fiscale vigente nel paese. Seguono anche gli altri governi, ai quali il magnate indiano promette investimenti e salvaguardia dei livelli occupazionali. Così, nell’estate del 2006, il gruppo indiano “conquista” Arcelor e dà vita a una nuova compagine: Arcelor Mittal. L’ingresso dell’ex commerciante di rottame di Calcutta nell’empireo del capitalismo globale è sancito dal Financial Times, che lo celebra come “uomo dell’anno”.
La “luna di miele” fra il capitano d’industria indiano e l’Europa però dura poco. Con la crisi economica globale – e, in particolare, con il palesarsi di una grave situazione di sovracapacità nel mercato siderurgico mondiale, e soprattutto in quello europeo – il “modello Mittal” viene sottoposto a profonde scosse. Il crollo della produzione e del fatturato infatti mettono a rischio i rendimenti, e quindi la fiducia degli investitori. Il vertice del gruppo risponde così in maniera drastica, tagliando gli stabilimenti ritenuti marginali. Grandrange e Florange in Francia, Liegi e Charleroi in Belgio sono solo alcune delle “vittime” di questa politica, che inevitabilmente scatena la protesta operaia. Di conseguenza, i rapporti fra Mittal e i governi europei si incrinano sensibilmente. Tuttavia la pressione della politica non riesce a far tornare il gigante sui suoi passi. “La Francia per Mittal è come il Messico o la Spagna o il Kazakistan o il Brasile”, rileva Remi Boyer, ex dirigente del gruppo: un paese come tanti che si trova a fronteggiare la potenza di una multinazionale con diramazioni in tutto il mondo. Potrebbe essere l’Unione Europea a compensare questa sproporzione di forze, ma evidentemente la realtà è più complessa: come nota l’ex sindacalista francese (oggi europarlamentare socialista) Edouard Martin, “loro [i Mittal] sono un’unica famiglia per tutto il mondo; in Europa invece siamo 27 paesi, ognuno coi suoi interessi”. E così il Piano d’azione varato dalla Commissione nel giugno 2013 per rilanciare la siderurgia europea si rivela a tutti gli effetti un’arma spuntata. Ma c’è anche un altro elemento a complicare la situazione, rendendo il mercato siderurgico europeo fra i più tesi del mondo: per dirla col deputato verde Lamberts, “tutti proteggono la propria siderurgia: la Cina, e persino gli Stati Uniti. Solo l’Europa si rifiuta di farlo.”
Qui si interrompe il denso racconto di Fritel, che allo spettatore italiano non può che lasciare alcuni interrogativi fondamentali, soprattutto in relazione alla possibilità (sempre più concreta) che Arcelor Mittal acquisisca Ilva. Un gruppo la cui finalità esplicita è creare valore per gli azionisti massimizzando i rendimenti delle singole unità nel breve periodo che interesse avrebbe ad acquistare una società che già da tempo è in perdita, sulla quale grava l’obbligo di realizzare una mole di investimenti di vastissima portata, per di più in una fase di mercato che continua ad essere caratterizzata da sovracapacità e intensa concorrenza?
In attesa che anche ai “piani alti” qualcuno si ponga questo interrogativo (magari senza farsi suggerire la risposta da qualche imprenditore amico…), non resta che auspicare che il bel documentario di Fritel possa essere visibile presto anche in Italia. D’altra parte sarebbe opportuno che ogni tanto una TV di “servizio pubblico” informasse i cittadini sul destino che li attende.