Ieri il Tar del Lazio ha bloccato l’applicazione del Piano Silletti, rilevando che le misure prospettate nel frattempo dal Comitato permanente per la salute delle piante dell’Unione Europea renderebbero di fatto superate quelle contenute nel provvedimento adottato nei mesi scorsi dalla Regione Puglia. Mentre lo stesso commissario incaricato di gestire l’emergenza annuncia che la portata dell’insetto vettore è stata contenuta del 90% grazie alle buone pratiche messe in atto dagli agricoltori nelle scorse settimane (e ciò consentirà una diminuzione dell’impiego di fitofarmaci contro le cicaline), con la decisione del Tar l’intera partita raggiunge una fase di stallo. Vista la grande confusione che ancora sembra regnare sulle cause di questo problema, ci siamo rivolti ad un esperto: il dottor Antonio Moretti, Primo Ricercatore all’Istituto di Scienze delle Produzioni Alimentari (ISPA) del Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) di Bari. Moretti è fitopatologo, specializzato nello studio di funghi micotossigeni.
Le cause
Partiamo dai fatti più recenti. Cosa ci dice il “parere dell’EFSA in risposta alle informazioni tecniche e scientifiche fornite da una ONG italiana”?
Penso quello che leggo dallo stesso sito delle “Relazioni Stampa dell’EFSA”: né più, né meno: “Non esiste al momento alcuna evidenza scientifica che comprovi l’indicazione che alcuni funghi, piuttosto che il batterio Xylella fastidiosa, siano la causa primaria della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi osservata in Puglia, nel sud dell’Italia.”
Sulla base della sua esperienza, qual è a suo parere la probabilità che questo risultato venga confutato da ulteriori ricerche?
Credo sia molto improbabile. I funghi fitopatogeni indicati sono molto noti da tempo a diversi patologi vegetali che hanno lavorato in questo ambito e il quadro sintomatologico che determinano non è sovrapponibile a quello che il team di ricerca guidato dal Dott. Donato Boscia ha, correttamente, a mio avviso, attribuito a Xylella fastidiosa.
Cosa sono i postulati di Koch? Quanto tempo è necessario a portare a termine i test di potegenicità? Nel nostro caso, quando si avranno, presumibilmente, i risultati?
I postulati di Koch sono 4 criteri, stabiliti nel 1876 dal medico e batteriologo Robert Koch, che devono essere soddisfatti prima che un microorganismo isolato da una malattia umana, animale o vegetale possa essere considerato come la causa della malattia stessa. In sintesi, il microorganismo sospetto deve essere presente in ogni organismo malato esaminato (in questo caso, parliamo, ovviamente della pianta di olivo); deve essere isolato dalla pianta ospite malata ed accresciuto in coltura pura; quando la coltura pura del microorganismo sospetto è inoculato in una pianta ospite suscettibile sana deve riprodurre i sintomi specifici della malattia; lo stesso microorganismo sospetto deve essere re-isolato nuovamente dalla pianta ospite inoculata e infettata sperimentalmente e deve avere le stesse caratteristiche del microorganismo isolato dalle piante malate. Il tempo necessario per soddisfare tutti i postulati di Koch cambia per ogni coppia specifica ospite/patogeno e, a volte, possono essere necessari anche molti mesi. Nel caso di Xylella fastidiosa/pianta di olivo temo che tutti e 4 i postulati di Koch siano stati soddisfatti negli esperimenti condotti dal team di Boscia.
La situazione attuale
Cerchiamo ora di fornire una fotografia della situazione attuale e dei metodi usati per “fotografarla”, limitandoci al caso degli olivi: come vengono “selezionate” le piante da analizzare per rilevare la presenza del batterio?
Non sono in grado di offrire risposte dettagliate sull’approccio condotto da un altro gruppo di ricerca, ma è ovviamente è necessario avere un campione rappresentativo anche di piante che non manifestano sintomi per comprendere meglio l’associazione del batterio alla pianta d’olivo. In ogni caso, lo schema di campionamento dovrebbe essere rigoroso e garantire una fotografia statisticamente valida della realtà. Aggiungo che al team di Boscia questi aspetti sono noti e dunque non ho motivo alcuno per dubitare della correttezza del loro approccio.
In generale, è mia convinzione che un amplissimo programma di monitoraggio in tutta la Regione andrebbe pianificato coinvolgendo i laboratori più affidabili ed attrezzati della Regione per queste analisi.
Sappiamo che l’azione del batterio non è immediata, quanto ci mettono mediamente i sintomi a manifestarsi?
Il batterio è stato isolato da circa 150 piante e, per ognuna di queste, la manifestazione dei sintomi può avere tempi specifici. Nel caso dell’ulivo questo aspetto non è ancora chiarissimo, ma sicuramente i sintomi potrebbero manifestarsi anche dopo alcuni anni, anche perchè il batterio è molto lento nella crescita.
Passiamo ora alla situazione generale: oltre agli ulivi, ci sono altre piante in Puglia attualmente contagiate dal batterio? Se si, quali? Quante? In che aree/province?
Il numero di specie vegetali contagiate dal batterio è, purtroppo, molto alto e, fra queste, l’oleandro sembra essere la specie più colpita, sempre nella stessa area di diffusione dell’infezione sull’olivo.
Il batterio è stato isolato per la prima volta nel 1987 da piante di vite, in USA. Da allora, lo si è ritrovato su oltre 150 specie. È evidente che, in nuovo ambiente, il rischio che inizi a colonizzare altre specie vegetali non abituate alla presenza di questo patogeno e, quindi, sprovviste completamente di difese specifiche nei confronti del batterio è molto alta. C’è da augurarsi che questo non accada sulle nostre viti e sui nostri agrumi, ma in questo momento non si può escludere.
Che fare
L’idea di eliminare le piante infette, specie per quanto riguarda gli ulivi, provoca un forte senso di perdita per tutta la comunità del territorio, e non solo, che va ben aldilà gli aspetti economici. Non ci sono soluzioni meno radicali? Si è parlato di “incappucciare” gli olivi per evitare che entrino in contatto con l’insetto vettore: tecnicamente lo ritiene possibile?
La situazione è drammatica e la soluzione proposta nell’immediato per rallentare la diffusione della malattia, l’eradicazione, lo è ancora di più. Ma, allo stato delle mie conoscenze attuali, non sono in grado di offrire risposte esaurienti su questo punto. È ovvio che la presenza di altre specie contaminate sul territorio salentino potrebbe rendere inutili questi provvedimenti (mi riferisco soprattutto all’eradicazione di tutte le piante nei cento metri che circondano i focolai), in quanto queste altre specie potrebbero fungere da fonti di inoculo, ma sicuramente le piante infette e disseccate sono una fonte di inoculo a cielo aperto e dovrebbero essere distrutte. Non credo affatto che incappucciare le chiome sia una soluzione praticabile per poter rallentare la diffusione dell’insetto vettore. Credo si tratti di una soluzione complessa dal punto di vista tecnico e poco efficace nei confronti dell’insetto.
Sinteticamente, quali sono le strade promettenti che si possono battere per trovare delle cure?
Ho seguito su una TV locale l’intervista del Dott. Scortichini, uno scienziato esperto in batteri fitopatogeni di chiara fama internazionale, in cui egli riferisce di risultati incoraggianti ottenuti su piante malate ove si sarebbero osservati regressioni dei sintomi, attraverso l’applicazione alla base del tronco in inverno e alla chioma in primavera/estate di nebulizzazione di soluzioni di idracidi. Tale approccio è stato decisivo ad affrontare una batteriosi molto pericolosa del kiwi in Italia. Ovviamente, mi auguro che sia una soluzione veramente efficace, ma, adesso, non esistono ancora dati sufficienti per tirare alcuna conclusione. In questo momento, sicuramente, la soluzione più importante resta il rallentamento della diffusione del batterio colpendo l’insetto vettore. Un uso mirato dei fungicidi e nuovi agenti biologici (es. funghi entomopatogeni) attivi nei confronti della sputacchina si iniziano ad applicare con qualche buon risultato, ma la strada è ancora lunga.
A che rischi esponiamo il nostro patrimonio naturale se, ipoteticamente, decidessimo di non tagliare le piante finché non abbiamo una cura?
La realtà è sotto gli occhi di tutti. La progressione della malattia è lenta ed inesorabile. Il rischio che si aggravi la distruzione di questo nostro meraviglioso patrimonio è la naturale evoluzione del nostro dramma pugliese. Mettere da parte le convinzioni preconfezionate e ragionare collettivamente affidando al confronto fra scienziati le scelte da perseguire sarebbe il bene della nostra comunità. Ovviamente, questo non accadrà. E le ultime iniziative della magistratura nei confronti dei gruppi di ricerca di Bari di CNR e Università, ai quali giunga tutta la mia solidarietà, lo conferma.
Paola Biasi