Cosimo Martucci era un operaio dell’appalto ILVA morto qualche giorno fa in fabbrica, schiacciato sotto il peso del componente del gigantesco macchinario che la sua ditta si accingeva a trasportare. Era un “padre di famiglia” che ha lasciato una moglie – in compagnia della quale sorride in una bella foto che lo ricorda – e due bambini ai quali, come recitano le cronache, “non ha mai fatto mancare niente” grazie agli stipendi del lavoro che lo ha ucciso. E’ il sesto morto in ILVA di Taranto dal 2012. E’ noto a tutti cosa sia ILVA: una enorme fabbrica inquinante che produce acciaio rilasciando nell’ambiente circostante benzo(a)pirene, diossina ed una lista infinita di metalli pesanti tossici.
E allora: Cosimo Martucci è l’ennesima vittima di una fabbrica assassina? O, meglio, è soltanto la vittima di una fabbrica inquinante? E ILVA va a fortiori chiusa non solo perché inquina ma anche perché Cosimo Martucci è morto, dunque non garantisce sicurezza ai lavoratori? Cosa dicono i dati a proposito degli incidenti sul lavoro?
L’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro della Vega Engineering analizza il fenomeno ‘morti bianche” in Italia (orrenda definizione!) attingendo dai dati Inail e conteggiando a parte le morti sul posto di lavoro, distinguendole da quelle “in itinere”, occorse cioè mentre il lavoratore si recava al lavoro o tornava alla propria residenza una volta uscito dal lavoro. Ciò perché molti datori di lavoro non considerano le morti “in itinere” come morti bianche, quindi lasciano i parenti privi di risarcimento assicurativo. Le tabelle sono create sulla base delle denunce pervenute all’Inail, dunque il fenomeno è sottostimato a causa dell’altissimo numero di lavoratori irregolari che prestano la propria opera in nero.
Un dato colpisce immediatamente: al 30/09/2015 i morti sul lavoro in Italia sono 626 contro i 569 dello stesso periodo dello scorso anno; il fenomeno è in forte ripresa nell’ambito di una tendenza crescente, come ben rappresentato dal grafico qui sotto, fornito dall’Osservatorio Indipendente di Bologna (che conteggia anche i morti in itinere).
E’ possibile rendere i dati confrontabili dividendo il numero di incidenti mortali per il numero di occupati: si scopre che, nel 2015, la Puglia è al nono posto nella triste classifica per regioni, con un indice di incidenza sugli occupati (numero di infortuni mortali su milione di occupati) pari a 32,9, ben al di sotto di Molise (90,5), Marche (35,3), Abruzzo (40,8), Umbria (44,6) e Campania (39,4). A livello provinciale, Taranto è al 102° posto nel 2015 con un I.I.O. pari a 6, Bari al 15° (I.I.O. 54,7), Lecce al 57° (I.I.O. 26,6), Brindisi al 59° posto (I.I.O. pari a 26), Foggia al 64° (I.I.O. 24,4). Almeno per quest’anno, la nostra provincia sembra messa meglio di tante altre.
Dal momento che i primi posti della classifica sono presidiati da città certamente non a particolare “vocazione industriale” (Lodi, Benevento, Caltanissetta, Campobasso, Rieti), e che gli indici di incidenza sono più alti nel Nord-Est dell’Italia ed in Molise, si potrebbe pensare che qualcosa non torni. Invece torna tutto: è più facile che a morire siano i lavoratori a cottimo nelle campagne pugliesi e molisane e gli operai di piccole aziende manifatturiere del Nord Est o dell’indotto di grandi aziende che non rispettano le più elementari norme di sicurezza – la cui applicazione è comunque prevista dalla legge. E così ci sono anni (2015) in cui il primato delle morti spetta al Molise, ed anni (2013) il cui il primato spetta al verdissimo Abruzzo, seguito dalla Liguria, senza un senso logico apparente. Che invece c’è: si muore costantemente nelle aziende meno sindacalizzate perché di piccole dimensioni e appartenenti a settori produttivi in cui il “nero” e lo sfruttamento costituiscono la leva per fare profitti: “agricoltura, caccia, pesca e silvicultura” e “costruzioni”. E se è vero che nel primo settore muoiono spesso ultra-sessantacinquenni, a causa di “schiacciamento da trattore”, nel settore delle costruzioni muoiono soprattutto giovani uomini – 85 da inizio anno – a causa di “caduta dall’alto”, quando tutti sanno che le cinture di sicurezza sulle impalcature sarebbero obbligatorie, ma chi le utilizza è notevolmente più lento – e questo non piace al padroncino, perché lentezza mal si sposerebbe con la produttività (altro mantra che le evidenze statistiche sfatano).
E quanto si muore nel settore siderurgico? Non esiste una categoria lavorativa Istat specifica per i lavoratori siderurgici ma, per via indiretta, è possibile calcolare un indice di incidenza medio su occupati per ILVA Taranto a partire dal 2012: con un numero di lavoratori pari a 13.000 tra diretti ed appaltati, viene fuori un valore abbastanza alto (115) perfettamente comparabile con l’indice di incidenza medio per i primi nove mesi del 2015 (93) calcolato per il settore “costruzioni” a livello nazionale. In sostanza, gli incidenti mortali per numero di occupati nel settore delle costruzioni per i soli primi nove mesi del 2015 sono quasi pari allo stesso indice registrato in ILVA negli ultimi tre anni. C’è da augurarsi che, entro fine anno, non avvenga un “sorpasso” da parte del settore costruzioni – ma l’esperienza dice che purtroppo è molto probabile che ciò accada.
Nel settore agricolo poi la mortalità sul lavoro è enormemente superiore. E’ una mattanza continua, non a Taranto in particolare, ma in tutto il paese; e il motivo è chiaro: la legge 300/70 (il cosiddetto “Statuto dei Lavoratori”), la L. 626/94 (la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) ed il Dlgs 81/08 (il “Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”), ovvero i provvedimenti che hanno segnato le progressive conquiste delle organizzazioni dei lavoratori a partire dal secondo dopoguerra, sono state svuotate nel giro di pochi anni dai vari “Decreto Sviluppo”, “Jobs Act”, “Decreto Semplificazioni“(2012) che, fra le altre cose, riducono i controlli Inail nelle aziende sostituendoli con autocertificazioni del datore di lavoro.
Tutto ciò non è frutto del caso, ma di ricette culturali cucinate dalla dottrina economica mainstream, i cui ingredienti fondamentali per ottenere produttività e successo sono maggiore velocità, più privato e meno pubblico, meno tutele e salario per i lavoratori – i quali tornano ad essere ricattati con alti tassi di disoccupazione (generando la lotta tra working poors e “manodopera di riserva a basso costo”).
Frugando nella memoria, non è difficile paragonare queste dinamiche a quelle già vissute, mutatis mutandis, in altri frangenti del secolo scorso, ma con una notevole differenza: da una parte il padrone, aiutato da una serie di armi messe a sua disposizione da un Governo infame, continua a fare il suo mestiere e ha ben chiaro il suo interesse; dall’altra, il lavoratore – come dimostra l’esigua adesione allo sciopero indetto per la morte del povero operaio – è ormai un’isola: fa poca politica con i propri colleghi, stretto tra il bisogno materiale e gli standard culturali creati dai manipolatori di pensiero funzionali agli interessi dei padroni – un’ operazione che, in trent’anni di costante bombardamento mediatico, ha ottenuto ottimi frutti. E’ contro il pensiero unico che bisogna attrezzarsi: è ciò che sinistra e sindacati non sono riusciti a fare finora.