“Riformista di sinistra”: Guido Gentili, nel suo fondo pubblicato dal Sole 24 Ore del 22 Febbraio definisce in questo modo il nuovo Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Rileggo il passaggio sul giornale una, due, tre volte e mi viene in mente la definizione Washington Consensus (o neoliberismo) felicemente coniata da Le Monde Diplomatique nel 1989 e riferita ad un «pacchetto di riforme proposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale miranti a realizzare disciplina fiscale, riduzione della spesa pubblica, imposizione fiscale diffusa e moderata, tassi di interesse reali bassi ma positivi, tassi di cambio determinati dal mercato, liberalizzazione delle importazioni, apertura agli investimenti esteri diretti, privatizzazioni, deregolamentazione, difesa dei diritti di proprietà» (Williamson, 1989). I destinatari di questi pacchetti di riforme, oltre i cittadini USA, sono stati i paesi sudamericani ed africani, in un primo momento serbatoi di materie prime e manodopera a basso costo, poi destinatari di prodotti finiti da acquistare a debito grazie all’intercessione criminale di despoti di turno piazzati e protetti dalle multinazionali a difesa dei propri interessi: con prestiti forzosi e successive austere riforme (per recuperare i prestiti) i paesi forti hanno letteralmente saccheggiato intere aree del globo, scaricando successivamente nelle stesse terre i propri surplus produttivi (e causando guerre e lucrose ricostruzioni), impoverendo miliardi di persone ed arricchendone spudoratamente poche migliaia; il tutto grazie all’armamentario teorico gentilmente fornito da organismi internazionali come OCSE e Fondo Monetario Internazionale, dove il nostro Ministro dell’Economia è di casa. Sono le stesse riforme chieste oggi dall’OCSE, quindi da Padoan, a numerosi paesi europei, tra i quali l’Italia. Da domani Padoan potrà applicarle direttamente agli italiani, che però le stanno già subendo da almeno un ventennio. E’ questo il riformismo di sinistra?
Stanno sperimentando su noi le fallimentari politiche – fallimentari per quasi tutti i cittadini ma molto redditizie per una ristretta cerchia di persone – attuate allora nei paesi sottosviluppati (e che tali sono rimasti proprio a causa di queste cure): il processo è cominciato lentamente, ma ora il fronte della valanga è enorme e viene giù veloce. L’economista Stefano Perri, in un celebre saggio pubblicato su Economia e Politica nel 2009 dice: ‹‹scriveva Keynes, nelle Conseguenze economiche della pace, che il processo di formazione del capitalismo industriale si è fondato su un “doppio inganno”. Da una parte i lavoratori si appropriavano di una piccola parte della torta che avevano contribuito a produrre, mentre i capitalisti ne ricevevano “la miglior parte”, con la tacita condizione di non consumarla, ma di destinarla prevalentemente all’accumulazione del capitale. Dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale, il processo di sviluppo è sembrato invece basarsi su una graduale diminuzione delle diseguaglianze che ha stimolato la domanda aggregata. Tuttavia, dagli anni settanta, le diseguaglianze sono tornate a crescere, con l’aggravante che nei paesi sviluppati la “miglior parte della torta” ha alimentato prevalentemente la speculazione piuttosto che gli investimenti reali. In molti hanno scambiato questa restaurazione del “doppio inganno”, che con la crisi attuale mostra tutte le sue contraddizioni, con la via maestra della modernizzazione››. Tra i molti annoveriamo il nostro centro-sinistra, che ha rotto il patto socialdemocratico intitolato cessione del controllo del capitale in cambio di welfare.
La stessa OCSE di Padoan ammette che la quota salari su profitti si va riducendo sempre di più e, conseguentemente, la ricchezza si concentra nelle mani di poche persone, anche e soprattutto in Italia [l’indice di Gini è una misura della concentrazione della ricchezza, n.d.r.]. Bisognerebbe avere il coraggio, allora, di dire che il sistema industriale italiano ha perso pezzi importanti perché, in Italia, dal 1993 in poi è stato privatizzato e liberalizzato molto (alla modica cifra di 127 miliardi di Euro ai prezzi attuali). E cosa suggerisce il Padoan capo-economista dell’OCSE per fronteggiare la crisi? Aprire ulteriormente i mercati, liberalizzare il flusso di capitali, rendere più flessibile il lavoro. È economia sociale di mercato quella italiana, in cui i grandi imprenditori con rendite di posizione regalate dagli amici non investono, continuano ad arricchirsi e i piccoli imprenditori devono evadere per non morire (e ora non basta più) mentre – secondo lo studio Istat Noi Italia, 100 Statistiche per capire gli Italiani – l’11% della popolazione non si cura più, il 23% non può permettersi spese sanitarie impreviste, il 24,9% delle famiglie vive in uno stato di disagio economico, la spesa sanitaria è scesa al 7,3% del PIL (e scenderà al 6,7% entro il 2016)? Tutti sanno che, in Italia e in quasi tutti gli altri paesi europei, c’è bisogno di mirati investimenti pubblici e per far questo non bastano i discorsetti di Napolitano contro l’austerità di fronte all’Europarlamento – salvo poi consigliare un watchdog del mainstream austero a Renzi per la carica di Ministro dell’Economia-: c’è bisogno di una nuova Europa, in cui il paese che accumula di più e guadagna, grazie ai debiti contratti dagli altri, redistribuisca il reddito agli altri membri dell’Unione e, contemporaneamente, inflazioni, cioè lasci aumentare i salari in modo da stimolare i consumi, quindi le produzioni importate dagli altri paesi. E non ci sono patrimoniali (una tantum o strutturali), riduzioni di cuneo fiscale, spostamento delle imposte dai redditi ai consumi – pazzia iperliberista e regressiva – che tengano: o si redistribuisce il reddito all’interno dell’area euro (e poi all’interno di ciascun paese) e si intraprende una massiccia azione di investimenti statali e nazionalizzazioni oppure la “competitività” sarà perseguita in Italia con modalità con cui è stata cercata invano in Irlanda e Spagna, cioè azzerando completamente le tutele sul lavoro, riducendo i salari nominali e accrescendo il serbatoio di manodopera disponibile a basso costo. Gli aggiustamenti salariali ai quali il nuovo Ministro ha subito accennato vanno infatti letti con la parola riduzioni salariali. La progressiva destrutturazione della contrattazione nazionale a favore di contratti aziendali e di prossimità serve esclusivamente a questo: a lanciarli in una competizione salariale al ribasso, serve per condannarli alla lotta tra poveri. Sono queste politiche economiche di sinistra?
Tutti i policy makers sanno quello che dovrebbero fare ma nessun attore istituzionale lo fa perché, per dirla con Ernesto Screpanti: «le classi politiche sono così legate agli interessi del grande capitale, finanziario e industriale, che verrebbero sfiduciate da questo non appena osassero solo proporre un abbandono delle politiche d’austerità finalizzato alla redistribuzione del reddito e del carico fiscale a favore delle classi subalterne».
E allora Padoan preferisce coprirsi di ridicolo quando, non più tardi di otto mesi fa, si fa dire dall’economista Krugman (che certo comunista non è): «Il capo economista dell’OCSE ha ammonito che la zona euro rischierà di perdere una battaglia già vinta, se rinuncerà a tagliare i deficit di bilancio e a risolvere gli inveterati problemi della sua economia. Padoan ha detto che la percezione che si sta diffondendo, secondo la quale l’austerità è inutile, è sbagliata.» «Il risanamento fiscale è efficace, il dolore è efficace», ha detto. Ha aggiunto poi che i politici della zona euro debbono comunicare meglio i loro successi alla popolazione stremata. Credo che questo sia il gergo che usano in Europa per dire che “i pestaggi andranno avanti finché il morale non si rialzerà”. È Padoan un economista “riformista di sinistra?”. A me sembra un conservatore liberista ultrareazionario.
Padoan sa bene che maggiore flessibilità del lavoro in entrata ed uscita in Italia è economicamente inefficace dal momento che, sulla base degli indici di protezione del lavoro creati dalla stessa OCSE (E.P.L.), risulta che proprio il lavoratore italiano è più facilmente licenziabile rispetto a quello tedesco o francese e che l’Italia, dal 1985 al 2013, è stato il paese che ha maggiormente deregolamentato il lavoro fra tutti i 34 paesi dell’OCSE. Tra l’altro gli economisti Brancaccio e Suppa hanno dimostrato con uno studio econometrico che non c’è un alcun nesso tra maggiore flessibilità del lavoro e maggior tasso di occupazione: più flessibilità non significa più occupazione.
L’economista spagnolo Soler dice: «Le politiche di austerità costituiscono l’espressione più evidente del fatto che le élite si trovano in una posizione di forza tale, rispetto al mondo del lavoro, da potersi permettere di rompere in maniera unilaterale e definitiva il patto implicito in base al quale si erano creati, rafforzati e mantenuti i welfare state europei. Queste élite sanno perfettamente che una classe lavoratrice precarizzata, de-ideologizzata, destrutturata e che ha perso ampiamente la sua coscienza di classe, è una classe lavoratrice indifesa, priva della capacità di resistenza necessaria per preservare le strutture di benessere che la proteggevano dall’inclemenza della mercantilizzazione dei bisogni economici e sociali essenziali».
Questa mancanza di coscienza di classe permette a Renzi di affermare: «Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che, al contrario, il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee di Zingales, Ichino e Blair non possono essere tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore» (intervista al Foglio dell’8 Giugno 2012). Proprio quando si è intimamente reazionari e di destra, indossare il camice rosso fa comodo perché gli schizzi di sangue della macelleria sociale si notano meno.