Con questo contributo inauguriamo la rubrica Satire: una serie di racconti a cura di Cosimo Dellisanti, giovane scrittore tarantino. Un’occasione per sorridere (e riflettere) sulla nostra realtà.
Pasquale Nucafè fece capolino all’angolo. Erano da poco passate le tre di notte, nessuno era in vista. Uscì allo scoperto, sulla strada, e andò alle transenne. Stringeva sotto il braccio uno zaino Invicta tutto bucherellato e bruciacchiato da sigarette. Lì aveva gli strumenti della sua vendetta. Ridacchiò tra sé. «Mo ve fazzə vedé jiə, a vujiə! Ve l’agghjia’ffà vedé propriə».
Scavalcò la transenna, urtò le palle, soffocò una bestemmia, si piegò sulle gambe e, quatto come un ratto, strisciò verso il compensato che copriva la voragine nell’asfalto. Scoperchiò, ma era al buio non vedeva nulla di questa famosa “tomba”.
Tutto era accaduto due giorni prima. Era al parcheggio, come ogni mattina, e aveva fatto intorno ai cinquanta euro. Gli affari miglioravano. Sempre più automobilisti gli pagavano il servizio e aveva smesso anche di metterla sul gentile, “chiedendo il caffè” come aveva fatto agli inizi. Il soprannome se l’era guadagnato così; ormai lo conoscevano, sapevano chi fosse Pasquale Nucafè, lo rispettavano e lo pagavano.
A mezzogiorno e un quarto era andato a comprarsi una raffo bella ghiacciata in salumeria. A mezzogiorno e mezza, quando era tornato al parcheggio, trovò un’ammucchiata di signori incravattati, universitari con gli zainetti, giornalisti e cameraman. I vigili recintavano l’ammucchiata.
Si era fatto avanti, facendo del braccio una frusta; la mano a borsetta. «Aho! Ce cazzə ste succedə, aqquà?».
Un vigile lo trattenne con una manata. «Zitto, che stanno facendo la conferenza stampa».
L’ammucchiata era aperta intorno a tre bambocci con la cravatta di papà che se la profumavano davanti alle telecamere e ai telefonini. E gli applaudivano pure! Nucafè aveva cercato di farsi largo per raggiungerli e applaudirli anche lui, ma sulle loro stesse facce.
Il più alto dei tre bambocci, con una montatura rosso ciliegia e baffoni a manubrio, aveva giunto le dita e preso la parola. «Cari intervenuti» aveva detto, «io e i miei compagni siamo emozionati da matti. Davvero, neanche alla discussione della tesi avevamo così tanta paura».
Il pubblico rise e applaudì ancora. E Nucafè aveva inspirato l’aria tra i denti come un cinghiale.
«Dopo attente e accuratissime indagini» aveva continuato il bimbo, «abbiamo individuato qui, proprio qui, sotto i vostri piedi» e indicò l’asfalto, «un’altra tomba greca risalente al IV secolo avanti Cristo».
Sotto l’asfalto? L’asfalto del suo parcheggio!
La nanetta con gli occhiali fucsia alzò la mano e interruppe l’amichetto suo. «Ci rendiamo conto, e spero che ve ne rendiate conto anche voi, che recuperare questa tomba è un passo necessario per la rinascita culturale della città».
All’ennesimo applauso, Nucafè aveva alzato le mani al cielo come per implorare Dio di fulminarli. Dal petto gli era esploso un «Aewh!», poi si era scatenato. «Ma mocc’a lə mènnə də lə mammərə vòstrə! No’vvə nə sciàtə! Ce cazzə vulit’acchjiannə? Lə tombə cu’ lə muertə? E sciatə a u’ cəmətèrə, ma nongə avit’ a cacà a sasizzə a’mme!».
L’incravattato che ancora non aveva parlato si era messo a ridere e poi aveva aggiunto «Ecco, quando avremo finito di restituire alla città la sua dignità, persone come lui saranno un ricordo! Reperti da museo, nell’ala “Inciviltà Antiche”!».
Sotto gli occhi spalancati di Pasquale, il pubblico aveva esultato, acclamato, gridato «Siamo con voi!». Lui, d’istinto, aveva afferrato il marsupio e stretto forte, assicurandosi che tintinnasse ancora. Aveva immaginato una pioggia di monete da cinquanta centesimi scrosciare via dalle mani battenti dei giornalisti. Tutte monete che lui non avrebbe ricevuto più! No, doveva difendere ciò che era suo. Doveva risolvere la cosa alla vecchia maniera! Benzina – rigorosamente succhiata via da un’utilitaria parcheggiata sotto casa – e fuoco!
Dallo zaino sfilò una bottiglia da due litri e ne sparse il contenuto puzzolente dentro il buco, sulla tomba con «lə megghjiə muertə lorə». Strofinò le mani sui jeans, si accese una sigaretta e diede una bella aspirata. Ciò che stava per fare lo faceva sentire un po’ gangster. Prese la sigaretta tra indice e medio, ne osservò la brace e sogghignò. «Awerrə, oh! Fa ca so’ Quendə Tarandinə».
La sigaretta precipitò nell’oblio e scomparve. Per un secondo, Nucafè temette il fallimento, poi il nero tenebra divenne arancione lava e una vampa si innalzò dalla voragine. Era come se avesse appena aperto una crepa sull’l’Inferno! Pasquale ricoprì col compensato, che si colorò come il mantello di un leopardo. Chiazze di nero carbone si allargarono sul piano legnoso, finché anche quello non prese fuoco.
Nucafè corse a nascondersi, dietro un’auto. Tra poco sarebbero giunti i pompieri, la polizia, i giornalisti e lui non voleva perdersi le loro facce, anche a costo di essere beccato. Sarebbero accorsi anche i tre bambocci, sì. Uagniù, che non dovete fare incazzare Nucafé! Sorrise stridendo i denti che gli rimanevano.
«Cu’ lə pilə d’u cazzə miə addà rinascerə sta’ città!».