Che cosa vana la pittura, ammirata perché assomiglia a cose di cui non ammiriamo affatto gli originali!
(Blaise Pascal)
Il fascino delle piccole cose, la rivalsa degli ultimi, la rivincita di ciò su cui il nostro sguardo non si posa se non di passaggio, superficialmente. Eppure, c’è un modo per raccontarla questa quotidianità invisibile e l’arte, anche in questo caso, può venire incontro a tale esigenza. Per questo è stata una bella scoperta quella venuta fuori dall’incontro con la pittura visionaria di Michele Petrelli, pittore e designer tarantino con un’anima sospesa tra l’innocenza dell’illustrazione e la potenza di quell’espressionismo che da Austria, Germania e paesi scandinavi inizia a spirare con forza sempre maggiore negli anni delle prime avanguardie novecentesche sino alle declinazioni più contemporanee: Schiele e Kokoschka, Grosz e Dix, senza dimenticare certe inflessioni surrealiste. Ma soprattutto tanta, tantissima personalità. Quella personalità che, nel cucire assieme le suggestioni più differenti, riesce a creare qualcosa di nuovo e inconfondibile: ciò che comunemente è chiamato stile.Michele Petrelli ne ha uno chiaro e riconoscibile; si definisce «un encefalo in un’ampolla di vetro. Sono un artista visivo-uditivo-tattile… Non disprezzo la materia pur vagabondando nello spirito e nella spiritosità»: una descrizione che si addice appieno al suo modo di fare pittura in cui su sfondi realizzati quasi “svolgliatamente” – e il colore tenue, acquerellato sta lì a dircelo – prendono vita personaggi dalla consistenza materica di schietta evidenza. Abbiamo parlato con lui del suo mondo e di come nasce la sua arte.
Michele Petrelli, la tua pittura è essenzialmente figurativa. Parlaci un po’ del tuo stile, dei tuoi modelli di riferimento.
«Lo stile è senz’altro illustrativo. Le mie immagini sono come dei singoli fotogrammi di storie che racconto. Dei tasselli che assemblati formano un mosaico descrittivo. Sono un appassionato divoratore di fumetti. Ne ho letti molti e più volte ho provato a disegnarne qualcuno. Indubbiamente questa inclinazione a “raccontare” attraverso le immagini è una caratteristica ereditata dai comics. Per lo stile dei personaggi ho subìto diverse metamorfosi. Dai toni noir del pastello ad olio nero sono passato alle rapide spatolate rosse, poi ho subìto l’influenza della linea di Schiele, i colori tenui dei dipinti di Hokusai, e l’oniricità del surrealismo di Dalì. Ultimamente mi trovo in una fase grottesca ma allo stesso tempo romantica e si nota molto il contatto con l’arte nord-europea. Dipingo dei cloni, degli umanoidi buoni. Degli esseri privi di intelletto, nati come supporto ad un’umanità sempre più vicina alla scienza e meno allo spirito.»
Il Liceo Artistico di Taranto. Quanto ha contato nella tua formazione?
«Il Liceo è stato un’ottima palestra dove disegnavamo piacevolmente con una media di 6 ore al giorno. Il problema è stata la mancanza totale dell’inglese e ancor più grave l’assenza dell’insegnamento sulle tecniche pittoriche. Spero che adesso a distanza di vent’anni le cose siano cambiate. Conservo un gran bel ricordo della bravissima insegnante di storia dell’arte: la professoressa Calò che mi ha fatto “vivere” la sua materia.»
Il punto di svolta nella tua carriera?
«Sicuramente la svolta è stata approdare in un’importante galleria danese, punto d’incontro di individualità anche internazionali. Inoltre questa collaborazione mi consente il confronto con artisti dell’espressionismo nordico contemporaneo.»
Sei anche designer…
«Ho lavorato nel campo del CAD meccanico nel ramo della documentazione tecnica con aziende emiliane. Ancor prima sono stato disegnatore di interni presso vari studi e aziende locali tarantine. Mi occupavo essenzialmente della rappresentazione tridimensionale di ambienti reali per una previsualizzazione dei progetti (rendering). Potrà sembrare insolito ma anche questo bagaglio di esperienze prettamente tecniche ha influenzato molto la mia pittura e soprattutto il mio modo di osservare e rappresentare la spazialità.»
In che direzione va ora la tua ricerca?
«Cerco sempre di guardare in più direzioni senza fossilizzarmi su un solo genere e cambio molto spesso anche tecnica per sperimentare il più possibile. E’ vero che ultimamente mi sono incentrato molto sugli “umanoidi buoni”. Ma se tra vent’anni stessi ancora dipingendo questi soggetti allora non sarei un vero creativo.»
Artista poliedrico, talento riconosciuto a livello internazionale – è presente in esposizione permanente presso la galleria danese “Tornby” – Michele Petrelli ha ricevuto diversi riconoscimenti quale, ad esempio, l’approdo tra i primi trenta finalisti nel Brain project.eu. International Visual Arts con l’installazione dal titolo “Attraction”. I suoi “umanoidi buoni” sono frutto della coraggiosa scelta – perché oggi va considerata veramente coraggiosa – di continuare a interrogarsi sulla figura, sul suo trasformarsi in materia, sul suo divenire forma, sebbene non sia mai la forma che ci si aspetti; quei ghigni un po’ canzonatori e alienanti dei figuri ripresi negli atti più vari, dall’incontro tra amici, all’atto sessuale sino alla rapina, perpetrata ai danni di un ometto, dinanzi a uno sportello bancario. Dinanzi all’esplosione della moda dell’astratto e delle sue declinazioni, Michele Petrelli resiste con i suoi personaggi dai volti caricati, dalle fisicità disarmate, con l’invenzione di “non luoghi” in cui farli muovere, in un’estetica che non è necessariamente legata al bello, al perfetto, ma all’attenzione lenticolare per gli aspetti più comunicativi tanto della realtà quanto del sogno.
StecaS