Secondo i dati dell’Istat del Luglio 2013, su 22 milioni di lavoratori italiani, solo il 53,6%, poco più di 12 milioni, ha un posto stabile e a tempo pieno. Il restante, ha un lavoro precario, con le più svariate forme contrattuali. Un mondo fluido e mutevole, dove è difficile distinguere tra chi è libero professionista per scelta e chi è “involontario”, come li definisce l’Istituto italiano di statistica, oltre ai lavoratori che accettano lavori con contratto part-time o a “partita iva” in mancanza un impiego stabile. Potremmo immaginare una tendenza all’utilizzo di contratti cd. “atipici” nel solo mercato del lavoro “privato”, ma così non è. Lo Stato e gli Enti locali, anziché promuovere un lavoro stabile per garantire sicurezza alle famiglie, attinge a piene mani dall’enorme serbatoio del bisogno di lavoro che, all’art. 4, la Costituzione sancisce come un “Diritto”.
Ma quanti sono i precari del pubblico impiego nel nostro paese? Secondo l’Agenzia Governativa ARAN, i precari sono 317 mila. Per la CGIA di Mestre, invece, sono almeno un milione, considerate tutte le figure non stabili. A partire da coloro che sono definiti “liberi professionisti” e che sono invece dei dipendi mascherati, che lavorano per un unico committente, a cui viene imposto l’orario di lavoro, l’utilizzo del mezzo aziendale e che risultano perfettamente incardinati nell’organizzazione aziendale. Ed ancora i dipendenti con contratto a termine; coloro che lavorerebbero a tempo indeterminato se solo venisse data loro la possibilità attraverso l’istituzione di concorsi; i lavoratori part-time. I comparti del Pubblico Impiego che sfruttano maggiormente l’enorme sacca di precariato esistente in Italia sono soprattutto scuola, sanità, enti locali, università e vigili del fuoco. In alcuni casi, come quello degli enti locali, il blocco contenuto nelle ultime Finanziarie impedisce alle regioni di bandire i concorsi. E il precariato “di Stato” lievita.
La Costituzione all’articolo 97 afferma che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge” e il decreto legislativo 368 del 2001 – che attua una direttiva europea in materia di contratti a tempo determinato – stabilisce che dopo tre anni di proroghe “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato”, salvo i casi previsti dalla legge. Il Governo è intervenuto nell’Ottobre del 2013 con il “Decreto D’alia”, convertito in legge, che ha come obiettivo proprio il superamento definitivo del fenomeno del precariato, pur sottolineando l’impossibilità di “stabilizzazioni di massa”. La legge n. 101, tuttavia, non sanziona il datore di lavoro che inanella una serie ingiustificata di contratti a tempo determinato; si tratta tutt’al più di una sanatoria e non garantisce se non una minima parte dei precari pubblici.
Con due sentenze del 12 dicembre la Corte di Giustizia Europea, con sede in Lussemburgo, ha bocciato la legislazione italiana che nega il riconoscimento delle tutele dei precari della pubblica amministrazione.
Nell’Ordinanza “Papalia”, dal nome del Direttore precario di banda municipale che per 30 anni ha svolto servizio presso il Comune di Aosta, la Corte di Giustizia della Unione Europea rende effettiva la conversione dei contratti di lavoro da determinato ad indeterminato di tutti i rapporti a termine successivi con lo stesso datore di lavoro pubblico dopo trentasei mesi (anche non continuativi) di servizio precario, in applicazione di quanto disposto dell’art. 5, comma 4-bis, del dlgs 368/2001.
La sentenza della Corte di Giustizia irrompe nel panorama europeo, e soprattutto italiano, a distanza di 10 giorni dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione del due dicembre 2013, che cambia orientamento e dice “sì” al risarcimento del danno per i precari, sconfessando le sue due precedenti sentenze n° 392 e 10127 del 2012.
Nella Sentenza “Carratù” invece, la Corte di Giustizia statuisce che “La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, inserito in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che può essere fatta valere direttamente nei confronti di un ente pubblico, quale Poste Italiane Spa”, stabilendo che la Direttiva comunitaria 1999/70/CE sul lavoro precario può essere applicata anche a Poste italiane, che viene considerata come società pubblica e non come impresa privata.
Quanto statuito dalla Corte Europea nell’ordinanza “Papalia” e nella sentenza “Carratù” per analogia risulta applicabile a tutto il Pubblico Impiego, aprendo una autostrada per i risarcimenti e/o conversioni dei contratti a termine dei precari. La Corte Europea ha ribadito che deve essere applicato il decreto 368 del 2001, emanato per recepire la direttiva europea, e mai applicato. Perché lo Stato, come qualsiasi altra azienda alla ricerca della scorciatoia per non assumere e prolungare all’infinito lo sfruttamento di lavoro intermittente – senza tutele pensionistiche e per la disoccupazione -, ha modificato il testo del decreto nel 2007. I giudici italiani dovranno successivamente applicare gli orientamenti della Corte Europea, decidendo se procedere ad una stabilizzazione oppure ad un risarcimento.
Se un posto di lavoro non serve più, lo Stato e gli enti locali dovrebbero abolirlo. Se invece è necessario per assicurare un servizio ai cittadini per anni, allora occorre stabilizzare il lavoratore. Non è corretto per lo stesso lavoratore e per la società mantenere un lavoratore precario… a tempo indeterminato.