Per fronteggiare la crisi che sta devastando le produzioni europee di metalli di base (fra cui l’acciaio), il Parlamento Europeo sta discutendo in questi giorni una serie di misure volte a contenere la concorrenza degli operatori extra-comunitari. Si tratta di provvedimenti che si intrecciano alla battaglia contro il cambiamento climatico che animerà la Conferenza di Parigi sul clima (cosiddetta “Cop 21”) di prossima apertura. Sul banco degli imputati c’è soprattutto l’industria cinese, rea di stare invadendo il mercato europeo con i suoi prodotti a basso prezzo, provocando così un crollo generalizzato dei listini. Come stanno le cose? Cosa prevede la risoluzione che il Parlamento si appresta a varare? Come si articola con le politiche climatiche sostenute dalla Commissione? E cosa c’è alla base della “minaccia cinese”? Le righe che seguono provano a rispondere a queste domande, nella consapevolezza che la complessità del tema in discussione è tale da meritare ulteriori approfondimenti.
Sono tempi duri per la siderurgia europea. La produzione è rimasta stagnante, nonostante una certa ripresa della domanda fra 2012 e 2014 (+ 5%; fonti WorldSteel). D’altra parte, sono ancora lontani i livelli del 2011 e, tanto più, quelli pre-crisi. La quasi totalità dell’incremento del consumo è stato soddisfatto attraverso un rapido incremento delle importazioni extra-comunitarie (+ 36%; fonti Eurofer). Tendenza protrattasi nel corso del 2015: il dato delle importazioni per i primi nove mesi dell’anno risulta superiore del 18% a quello dello stesso periodo del 2014; viceversa, la produzione è rimasta sostanzialmente invariata.
In questo quadro – che rischia di esporre la siderurgia europea a una nuova stagione di dismissioni di impianti – si colloca la proposta in discussione in questi giorni presso il Parlamento Europeo riunito in seduta plenaria. La mozione, elaborata dal deputato socialista francese Edouard Martin e fatta propria dalla Commissione Industria del Parlamento (col consenso di tutte le principali forze politiche), punta a contrastare il dumping attuato dai produttori extracomunitari di metalli di base intervenendo su un punto specifico: le emissioni di CO2. Si prospetta cioè una sorta di “protezionismo verde” che, incrociando le istanze alla base della Cop 21, mira a preservare la competitività dell’industria europea.
Prima di esaminare nel merito la proposta di Martin, è utile analizzare il funzionamento del sistema di contrasto alle emissioni di CO2 vigente nell’Unione Europea, e le proposte di riforma dello stesso avanzate di recente.
La politica dell’UE contro il cambiamento climatico
Sin dal 2005 l’UE ha adottato un sistema di disincentivo delle produzioni a elevato contenuto di carbonio: l’Emission Trading Scheme (ETS). L’ETS, ispirato all’economia ambientale mainstream, stabilisce che tutti gli impianti responsabili della dispersione di CO2 debbano dotarsi di specifici “diritti di emissione”. Secondo la normativa vigente, questi devono essere acquistati dalle aziende attraverso aste pubbliche in misura variabile a seconda della CO2 emessa. Il ricavato delle aste viene impiegato dai governi dell’Unione per finanziare investimenti che favoriscano la transizione energetica. Diritti di emissione possono essere concessi gratuitamente agli impianti manifatturieri, in particolare a quelli che operano nei settori a maggiore rischio di “carbon leakage” – cioè di delocalizzazione a vantaggio di concorrenti che operano in paesi in cui vigono normative ambientali meno restrittive. Per la distribuzione delle quote gratuite i parametri di riferimento per ciascun settore vengono stabiliti sulla base delle performance del 10% degli impianti più efficienti.
La quantità di diritti di emissione disponibili è variata nel tempo, così come la quota dei certificati concessi gratuitamente. Nella fase di sperimentazione del sistema (2005-2007), le relativa abbondanza (e la prevalente gratuità) delle autorizzazioni ha causato il progressivo calo dei prezzi, al punto da annullare l’atteso effetto di disincentivo. Nella seconda fase (2009-2012), la recessione intervenuta nel frattempo ha fatto crollare la domanda di certificati, producendo un effetto analogo. Con la terza fase di implementazione, avviata nel 2013, le autorità comunitarie hanno deciso di imporre un taglio lineare delle autorizzazioni, pari all’1,74% l’anno, stabilendo una quota fissa di certificati da mettere all’asta, pari a circa il 60% del totale. In questo modo l’UE puntava a ottenere emissioni di CO2 inferiori del 20% al livello del 1990 entro la fine del periodo in questione (2020). Recentemente, la Commissione ha proposto al Parlamento Europeo e al Consiglio dei Ministri UE una risoluzione per aggiornare le linee guida del sistema ETS per il periodo 2021-2028, introducendo misure ancora più restrittive. Fra le altre cose, si prospettano tagli dei diritti di emissione del 2,2% l’anno. A questo ritmo, si prevede di ottenere entro il 2030 un abbattimento del 40% delle emissioni di CO2 – obiettivo che l’UE si è data per contribuire alla lotta globale contro il surriscaldamento climatico.
La ratio sottesa alle politiche climatiche comunitarie è chiara: la progressiva riduzione dell’offerta di diritti di emissione dovrebbe portare a un incremento dei prezzi degli stessi certificati, inducendo così le imprese a effettuare investimenti per abbattere drasticamente la generazione di CO2. In questo modo, l’Unione Europea prova a ribadire la sua leadership globale nel processo di transizione verso un’economia sostenibile. Obiettivo più facile a dirsi che a farsi, nell’attuale situazione di mercato. L’accentuata concorrenza globale, particolarmente intensa nei settori ad elevato contenuto di carbonio, sta determinando infatti un significativo crollo dei prezzi (e dei ricavi). I produttori europei denunciano che, in queste circostanze, la politica ambientale dell’Unione espone l’industria comunitaria a rischi di notevole portata. I bassi ricavi e le aspettative negative inducono infatti le imprese a ritardare gli investimenti: tendenza che verrebbe alimentata dal progressivo aumento dei costi derivante dal rincaro dei certificati di emissione. L’industria europea si troverebbe così a perdere competitività rispetto ai concorrenti che non devono sottostare a vincoli altrettanto restrittivi. Ne risulterebbe un esito paradossale sul piano ambientale: il mercato tenderebbe infatti a “premiare” indirettamente le attività maggiormente impattanti, attraverso l’aumento delle importazioni di provenienza extra-comunitaria.
La “proposta Martin”
E’ questa prospettiva che la proposta di Martin si propone di correggere, attraverso un “adeguamento delle frontiere”. Secondo l’estensore del testo, ciò vuol dire “rendere «equa» la concorrenza tra produttori europei e non europei sul mercato interno e l’esportazione e quindi evitare la delocalizzazione delle emissioni di carbonio.”
La proposta individua due possibili campi di applicazione: a) sottoporre le importazioni all’acquisto degli stessi diritti di emissione cui sono obbligati gli operatori europei; b) esentare le esportazioni comunitarie dall’acquisto dei certificati.
Si tratta, precisa il testo, di una misura flessibile: man mano che i partner commerciali extraeuropei dovessero adottare legislazioni ambientali analoghe a quelle vigenti nell’Unione, le barriere all’ingresso del mercato comunitario verrebbero adattate ai nuovi standard. Nondimeno, l’attuazione della misura richiederebbe una conoscenza più approfondita delle caratteristiche fisiche dei prodotti importati, nonché delle condizioni a cui sono stati realizzati, al fine di misurare il contenuto intrinseco di carbonio. La risoluzione prospetta dunque la creazione di un’agenzia di certificazione internazionale/multilaterale, o l’affidamento di quel compito ad un’istituzione già esistente.
Cosa succede alla siderurgia cinese?
Per misurare l’adeguatezza della soluzione proposta, occorre cercare di capire la natura della sfida che la siderurgia europea si trova ad affrontare. La gran parte delle importazioni che stanno alterando significativamente la situazione del mercato comunitario sono, come si è accennato, di provenienza cinese. La siderurgia della Repubblica Popolare sta infatti affrontando a sua volta un momento estremamente difficile. Dopo anni di crescita impressionante (fra 2005 e 2013 la domanda di beni siderurgici è più che raddoppiata; fonti WorldSteel), il consumo nazionale di acciaio ha subito una prima flessione lo scorso anno (-2%); ciononostante la produzione è rimasta stabile. Gli operatori cinesi hanno dunque indirizzato all’estero i prodotti che il mercato interno non era in grado di assorbire: le esportazioni infatti hanno conosciuto un rapidissimo incremento (+50%). La quota dell’export sulla produzione complessiva è così cresciuta sensibilmente (dal 7 all’11%), pur restando su livelli inferiori rispetto a quelli registrati presso i principali concorrenti internazionali (11%, contro il 13% della siderurgia indiana, il 14% di quella statunitense, il 16% della europea, e il 37% della giapponese). Le autorità sono però molto preoccupate dall’andamento del settore.
Il mercato nazionale è infatti afflitto da una gravissima situazione di sovracapacità: su circa 1,2 miliardi di tonnellate di acciaio/anno di capacità produttiva, più di 300 milioni (un quarto) risultano eccedenti. E’ questa la ragione che sta spingendo gli operatori siderurgici cinesi a rivolgersi in misura crescente all’estero. Tuttavia la feroce competizione innescata dal tentativo di conquistare nuove quote di mercato ha sortito effetti devastanti sui ricavi delle stesse imprese cinesi. Questo elemento, in concorso con l’incremento dei tassi di interesse seguito all’esplosione delle bolle finanziarie degli scorsi mesi, ha determinato effetti dirompenti sui conti economici. I siderurgici cinesi si sono trovati a dover far fronte ai debiti contratti nella precedente fase di espansione con risorse interne sempre più scarse. L’ulteriore ricorso all’indebitamento per coprire le perdite ha innescato un circolo vizioso: il conseguente aumento degli oneri finanziari ha prodotto nuove più consistenti perdite, esponendo le aziende a nuovi più gravosi debiti. Una spirale il cui esito è lo stato di insolvenza in cui alcuni colossi siderurgici si trovano oggi.
Quello che però ancora non è chiaro è la natura della “causa prima” di questo processo. L’arretramento della domanda di beni siderurgici in Cina è un evento congiunturale, dovuto al contestuale rallentamento dello sviluppo economico in quel paese? O a ciò vanno sommate le trasformazioni strutturali che pure la Repubblica Popolare sta attraversando? Di certo queste ultime avranno un ruolo crescente nel prossimo futuro: negli ultimi quindici anni la Cina ha espresso un “grande balzo in avanti”, che le ha permesso di dotarsi di una rete infrastrutturale e di una base produttiva da grande potenza industrialee. Di conseguenza, lo sviluppo del futuro non sarà soltanto meno rapido, ma anche qualitativamente molto diverso da quello degli ultimi anni: trainato in misura crescente dai beni di consumo e dai servizi – piuttosto che dai beni di investimento e dalla manifattura “in senso stretto”. Ne conseguirà verosimilmente un affievolimento della domanda di beni siderurgici. Nella misura in cui le autorità pubbliche vorranno prendere atto di questa di questa tendenza, anche in Cina – come già fu in Europa negli anni ’80, a fronte di dinamiche analoghe – avrà luogo una ristrutturazione complessiva della produzione di acciaio. D’altra parte, in questo senso sembra andare l’attenzione mostrata dalle autorità nei confronti dell’inquinamento generato dalle attività siderurgiche.
Tuttavia ristrutturare un settore di quelle proporzioni è cosa tutt’altro che semplice: sono in gioco centinaia di migliaia di posti di lavoro e il futuro di regioni vastissime. Neanche un’economia continentale, e un sistema politico fortemente centralizzato come quello cinese, può permettersi dismissioni di quella entità nell’arco di pochi anni: ne risulterebbe uno shock di difficile gestione. C’è quindi da aspettarsi che, se ristrutturazione ci sarà, essa avverrà con la necessaria gradualità (d’altra parte in Europa non durò meno di un decennio). Su questo terreno il vantaggio di cui gode la Cina è il suo tanto discusso sistema “misto”: le stesse grandi imprese siderurgiche sono controllate dallo Stato, e ciò potrebbe facilitare i processi di concentrazione che si renderanno necessari per completare la ristrutturazione.
Sfide globali e necessità di un approccio strategico
Se l’aumento delle importazioni di prodotti siderurgici di provenienza cinese, dipende soprattutto da una particolare situazione di mercato – e non alle normative ambientali relativamente permissive adottate dalla Repubblica Popolare –, è lecito chiedersi quale reale efficacia potrebbe avere la proposta Martin. Il dazio coprirebbe al più le disparità esistenti fra impianti più o meno efficienti sul piano ambientale, ma sarebbe del tutto inefficace a contenere i ribassi praticati dagli esportatori per collocare la sovraproduzione del mercato interno. Persistendo in Cina una situazione quale quella descritta sopra, i livelli dei prezzi continuerebbero a restare relativamente bassi fino alla definizione di un nuovo equilibrio fra domanda e offerta – con grave danno soprattutto per gli operatori più deboli. Il presupposto su cui si basa la proposta Martin – cioè che la perdita di competitività delle produzioni europee sia dovuta principalmente a normative ambientali particolarmente restrittive – è dunque quanto meno parziale. Il problema è molto più complesso, e gli aspetti economici ne sono il perno.
Esso potrebbe essere affrontato con robuste dosi di protezionismo “vecchio stile” – come pure raccomandano alcuni settori dell’industria europea (grosso modo gli stessi che lamentano politiche ambientali troppo rigide). Ma prima di lasciarsi influenzare da interessi particolari, sarebbe opportuno che i gruppi dirigenti europei (ammesso che esistano) si fermino a riflettere su alcune sfide di ampia portata che l’Unione – e il mondo – ha davanti. La Cina è un paese che ha interesse a intensificare gli scambi con l’Europa, e a questo scopo sta cercando di promuovere alcuni progetti infrastrutturali di portata strategica (su tutti, le cosiddette “vie della seta” che puntano a collegare, per terra e per mare, le aree del Nord-Ovest cinese con il cuore del Vecchio Continente). Alzare barriere laddove si prospetta la creazione di un’area di scambio è evidentemente un controsenso. Più lungimirante sarebbe cercare di gestire insieme, nella prospettiva di una crescente integrazione economica, la crisi di alcuni importanti settori industriali, che proprio la realizzazione dei progetti di cui sopra potrebbe rianimare.
Un’opzione su cui soprattutto l’Italia avrebbe interesse ad investire per ridare slancio alla sua industria dell’acciaio, oggi in grande difficoltà. A patto però che si ponga mano a una sua profonda ristrutturazione. L’attuale struttura produttiva del settore, nel nostro paese, è caratterizzata da una prevalenza di piccole e medie imprese rinchiuse in nicchie di mercato, insieme al “caso unico” della sola grande azienda (Ilva) che continua a languire in uno stato di sostanziale abbandono. In queste condizioni non si possono certo affrontare le enormi sfide che si prospettano. Se il governo ha una visione strategica dello sviluppo del paese, è questo il momento di metterla in campo.