Titolare dell’omonima compagnia teatrale che ha fatto tappa in più di cinquanta paesi al mondo, Pippo Delbono è attivo tanto sul palcoscenico quanto dietro e davanti la macchina da presa, attraverso un lavoro di attore (per Luca Guadagnino, Bernardo Bertolucci, Peter Greenaway) e regista cinematografico, che lo ha portato a realizzare cinque lungometraggi documentari fra il 2003 e il 2013. L’ultimo, Sangue, è attualmente in distribuzione ed è stato presentato nell’unica data tarantina del 17 Gennaio al Cinema Bellarmino: si tratta di un’opera complessa, che ci porta a contatto con un insieme frastagliato di sensazioni, destinate a suscitare in noi svariati interrogativi, in quanto uomini e cittadini.
Si parte dai resti de L’Aquila, città devastata e abbandonata dopo il terremoto del 2009, per poi seguire un filo apparentemente estemporaneo di eventi che chiamano in causa il funerale del brigatista Prospero Gallinari, l’amicizia che ha finito sorprendentemente per legare il buddhista Delbono con l’ex terrorista Giovanni Senzani (scarcerato definitivamente nel 2010 dopo 22 anni di carcere, 5 dei quali trascorsi in regime di semilibertà), e la morte di Margherita, madre dello stesso regista. Fatti e vite che si iscrivono dunque nella realtà, abbracciando la Storia generale e personale, in quello che appare come un lungo dialogo con il tempo e la morte.
La traccia portante è apparentemente quella del vissuto personale, tanto del regista quanto delle persone con cui egli entra in contatto, che riflettono sulle esperienze attraversate e sui segni che le stesse hanno lasciato in loro: quasi sempre si tratta di un profondo smarrimento umano, che li porta a riflettere non tanto sulle conseguenze etiche e politiche delle proprie scelte (Senzani rievoca anche l’esecuzione di Roberto Peci, fratello di un brigatista pentito), quanto, al contrario, sul fatto che esse abbiano definito un percorso tanto marcatamente certo nelle convinzioni, quanto poi aleatorio negli effetti sulla realtà. Di qui una serie di riflessioni sui tentativi di trovare un ordine in un fluire delle azioni che sembra protendere inevitabilmente alla distruzione e al caos.
Senzani rievoca il rapporto con la sorella scomparsa e la moglie malata, in relazione alla propria attività politica, che è stata per lui un autentico surrogato della fede; e la sua esperienza si intreccia alla profonda religiosità di Margherita, che pure non lenisce il calvario di una morte lenta e sofferente per un male incurabile. Delbono, dal canto suo, cerca un dialogo con la madre e tenta pure di aiutarla recuperando un medicinale in Albania, in un passaggio particolarmente surreale, dove emergono difficoltà degne di un resoconto sulla disorganizzazione della società contemporanea.
A “fermare” in qualche modo il magmatico scorrere di vite apparentemente senza risoluzione, è il lungo momento in cui Delbono documenta in diretta la morte della madre, accarezzandone il corpo inerte, riprendendone freddamente il cadavere, cercandola fra i tumuli delle camere mortuarie nell’ospedale dove la donna è deceduta, filmando la chiusura della bara. Sono momenti forti e che hanno comprensibilmente suscitato strascichi polemici circa la legittimità etica dell’esibire così impunemente il corpo senza vita della donna: un tempo la si chiamava riflessione sui limiti della visione, ed è innegabile che il regista compia un’operazione estrema. Ma, come egli stesso spiega, non lo fa per finalità esclusivamente teoriche o meta-cinematografiche sul senso della rappresentazione: al contrario, l’obiettivo della macchina da presa gli serve da filtro per creare una distanza fra la propria sofferenza di figlio e il lavoro di documentazione che permette di rendere lo spettatore partecipe della sua personale elaborazione del lutto. La freddezza del fatto si stempera pertanto nell’intensità di un momento condiviso con la massima sincerità, in un abbraccio che vuole essere tanto intimo e personale quanto paradigmatico del fluire della vita nella morte, che è condizione da sempre seminale negli interrogativi dell’essere umano.
D’altra parte, tutta l’opera ci appare come una sorta di enorme diario in cui Delbono scivola progressivamente fra questioni assolute (la fede, il credo politico, la morte) e sensazioni personali, indagando le contraddizioni del caso: l’amicizia fra un buddhista e un terrorista ateo; la malattia della religiosa madre (fervente anticomunista), che potrebbe trovare lenimento in una medicina reperita in uno degli ultimi paesi ex comunisti; la rievocazione dei fatti storici attraversati da Senzani che culmina nel rituale assolutamente intimo delle ceneri della moglie, affidate alle acque. C’è sempre un momento che scompagina la natura inerziale degli eventi, spezzando il destino di apparente distruzione per riconsegnarlo invece alla vita: l’abbraccio di Senzani al figlio dopo l’abbandono delle ceneri; l’urlo di Roberto Peci che scuote la ritualità della sua esecuzione, ricollocando nella stessa il dolore per un fatto che è umano prima ancora che politico; l’intensa preghiera di Sant’Agostino che Margherita Delbono recita a consolazione di chi resta.
Attraverso l’indagine, a tratti grottesca, quasi sempre dolorosa, degli eventi che descrive, Delbono ci regala una realtà ondivaga, che è determinata dal destino degli uomini, ma allo stesso tempo sovrasta ogni vita producendo lo smarrimento che funge da traccia portante. In questo modo, Sangue riesce a offrirsi come esempio di un cinema che si mostra nel suo farsi, pur riuscendo a tenere insieme un filo logico che infine ci riporta a L’Aquila e alla riflessione buddhista per cui nessuno può sfuggire alla vita, nemmeno con la morte. E chi resta non può fare a meno di documentarla.
Compagnia Pippo Delbono sito ufficiale
Sangue sul sito di Pippo Delbono
Giovanni Senzani su Wikipedia
Prospero Gallinari su Wikipedia